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Ricordo Perfettamente

La mia Musica in viaggio : come sopravvivere in auto.

Chi ha detto che in auto solo la musica "da autostrada" è buona compagna di viaggio ? Qualche suggerimento.

Ricordo perfettamente i miei “teens” e il mio rapporto con la musica. La ricerca per il budget necessario all’acquisto di un long playing… una somma che oggi farebbe sorridere, l’emozione di stare ore in un negozio anche solo per passare tempo a sognare sfogliando gli scaffali, l’ascolto…certi negozi avevano delle salette dove ti facevano ascoltare pezzi di album o i singoli del momento… e poi l’emozione di tornare a casa ed aprire quel grosso quadrato di cartone e assaporarne i segreti prima ancora di porre il disco in vinile sul piatto. Si trattava di un Rito Sacro.

E poi, cuffie o no, volume alto a seconda degli umori dei genitori e della tenuta della porta chiusa, ascolti ripetuti, la puntina che arrivava in fondo e ti costringeva ad alzarti per cambiare facciata o ripartire dall’inizio. Nei dischi originali erano spesso inclusi i testi nella copertina interna se non all’interno di copertina in quelli apribili, fedeli all’originale; testi che ti costringevano a sforzi notevoli per una corretta interpretazione dato che l’inglese scolastico del tempo non era sufficiente neppure a tradurre correttamente il titolo, spesso. Ricordo che alcune copertine mi apparivano come delle vere e proprie opere d’arte, con immagini affascinanti, geniali, trovate che non avresti mai dimenticato, una meraviglia che ti rigiravi per le mani e che custodivi all’interno di buste in plastica che solo i negozi più importanti ti regalavano all’acquisto. E che altrimenti dovevi acquistarti a parte per salvaguardare la tua collezione.

Il giorno in cui ti portavi un LP a casa era una emozione indescrivibile, una giornata che nessuno avrebbe mai potuto rovinare. Di alcuni dischi, ancora oggi, a 50 e più anni dall’acquisto, ricordo ancora benissimo come, dove vennero comprati e che emozione mi dettero ai primi ascolti e dove esattamente mi piazzai ad ascoltarli.

Poi arrivò il compact disc a infrangere il sogno. Che divenne, nonostante le mie eroiche resistenze iniziali, il formato con cui oggi la discografia ancora titilla le menti deboli di noi anziani appassionati con cento edizioni costosissime e che rappresentano l’attuale parametro per le nostre spese superflue. Un oggetto che è diventato uno dei mezzi di facile studio per gli esperti di marketing che certo non hanno più bisogno di sforzarsi per comprendere il target dei propri prodotti.

Ed oggi ? Oggi che non esiste più il concetto di proprietà concettuale, di diritto d’autore, parliamo di “musica liquida” che solo una frangia intende come un qualcosa che debba essere acquistato per fruirne. Inutile spiegarvelo ma ricordiamolo solo per correttezza nei confronti di quella regola giornalistica che vuole che “nulla debba essere dato per scontato”. Con musica liquida, definizione che pare risalire al massimo alla metà dei duemila, si intende indicare quella porzione della musica fruibile senza supporto fonografico tradizionale, dove per tradizionale si intendano vinili, cd, nastri.

Che dire ? Che ci siamo piegati, alla lunga come canne nel corso di una piena ? Giammai. Certamente, un paio di ignobili chiavette raccolgono centinaia di brani o interi album e un paio di queste ciottolano nel portaoggetti della mia auto; selezioni di brani che non avrei mai potuto ascoltare in sequenza e raccolti dal web o da personali cd e trasformati in quei file compressi che farebbero inorridire il mio impianto stereo… a proposito : quanti di voi ancora ne possiedono uno e lo utilizzano ? …ma che diventano utili in caso di viaggio o spostamento di media portata.

Gli spostamenti… che Dio li benedica, perché rappresentano per alcuni mesi all’anno la mia migliore occasione per ascoltare, riascoltare, degustare, quella musica che tanto mi serve a sopravvivere. Mi spiego meglio : certamente, possiedo un decente impianto stereo dove riascoltare i miei vinili o i miei cd, certamente riesco abbastanza spesso a trovare il modo ed il tempo per piazzarmi nella medesima stanza per centellinare la mia musica, ma è anche vero che la vita, in un modo o nell’altro, non ti lascia spesso quel tempo necessario ad ascoltare, non sentire, musica.

Dalla seconda metà di agosto, fino a fine novembre, l’Emilia diventa la mia meta prediletta : gli amici, la necessità ed il piacere di portare ad allenare i miei setter , mi portano ad attraversare l’Appennino e mi fanno restare per un paio d’ore solo, in auto, con il mio lettore. Un ottimo modo per restare attento e guidare concentrandomi sulle note. Lo so, non tutte , anzi ormai poche auto sono fornite di un lettore di cd, ma la mia non avrebbe potuto non esserlo e il rito di riempire periodicamente il porta cd è spesso più difficile di quanto si possa superficialmente immaginare. La scelta spesso ricade sulle medesime , note e amate cose proposte dai soliti adorati nomi. D’altra parte il tempo è sempre così poco che non lo si può sprecare ascoltando schifezze.

Altre volte vado a recuperare album che non ascolto da tempi immemori; altre volte provo a dare una logica alle mie scelte…tutto blues, tutto glam, tutti anni sessanta o tutto heavy rock, tutto jazz rock, tutta psichedelia…

L’ultima volta ho scelto di provare a recuperare dischi che davvero avevo dimenticato; cose che conoscevo bene o che credevo di conoscere bene ma che avevo accantonato da tempo ed ho approfittato per provare a testare la mia memoria. Voglio dirvi, però, che un giorno vi parlerò della “mia” Emilia, di come abbia imparato a conoscere prima ed apprezzare profondamente dopo, quella fettina di regione che frequento e che sta diventando una parte importante della mia vita, proverò a spiegarvi come certe tradizioni, la montagna, i piccoli paesi, l’incredibile senso di accoglienza, le minuscole comunità che lì resistono come eroi dei nostri tempi, possano vivere conservando usanze e amori che rappresentano la parte sopravvivente di un paese che crede di essere composto di sole grandi aree urbane, quando invece ha un sessanta per cento di paesi di pura montagna di cui nessuno si cura e cui nessuno pensa. Zone che, una volta abbandonate, faranno perdere a questo infame paese odori, sapori, tradizioni e conoscenze che nessun cittadino potrà mai recuperare. D’altra parte, anch’io adesso vivo in montagna, dall’altra parte di quell’Appennino che taglia in due il Paese.

Ma di questo parleremo un’altra volta, ammesso che l’argomento vi interessi; fatemelo sapere, se vi va. Questa volta vorrei parlarvi di quella manciata di dischi, di musica, del tutto non omogenea, che ha accompagnato le mie ultime settimane nell’attraversamento del Passo di Pradarena; musica che vorrei che anche voi sceglieste di riascoltare se non di ascoltare per la prima volta se non avete mai avuto confidenza con un certo genere di sonorità.

Vi ho appena detto “non omogenea”. Avrei dovuto scrivere “del tutto eterogenea”. Se ben ricordate sono un grande appassionato dei primi Roxy Music, quelli sperimentali, coraggiosi, melodici e psichedelici, unici e irripetibili. Bene, tal Brian Eno era incluso alle tastiere e suoni irriguardosi nei primi due album di quel gruppo. Eno era l’altra metà dei Roxy, essendo Bryan Ferry il perno intorno al quale ruotavano gli altri, non secondari, anzi, elementi. Eno era responsabile per tutte le follie ed i deliri che avevano reso assolutamente unici quei dischi. Quanto sarebbe arrivato dopo avrebbe segnato un’altra fetta di quella storia. Ma troppa era la forza centripeta che lo avrebbe portato quasi immediatamente fuori dal gruppo per intraprendere immediatamente una propria carriera. Ecco voglio suggerirvi oggi di recuperare quel trittico di album che rappresentano le prime incredibili cose prima che la musica “per ambienti ed aeroporti” lo portasse lontanissimo dai miei gusti. Nel mio porta cd ho inserito in sequenza Here Come The warm Jets, Taking Tiger Mountain by Strategy e Another Green World. Perché trilogia ? Perché personalmente ritengo che esista una logica consequenziale nelle tre uscite, una sorta di scivolo che conduce dalle canzoncine glam alle prime sperimentazioni rock e infine alla musica strumentale, con un occhio alla ironia dei Roxy ed alla ricerca di suoni originali ma con il preciso obbiettivo di aprire una strada che poi ben altri avrebbero scelto di percorrere.

Non so se darvi un breve elenco dei musicisti presenti in questi album potrebbe convincervi a provarli se non li avete mai avvicinati, ma sappiate che Robert Fripp, John Wetton, Chris Spedding, tutti i Roxy Music con l’eccezione di Ferry, membri dei Matching Mole, Pink Fairies ed Hawkwind, Robert Wyatt e Phil Collins, John Cale e decine di altri che andavano e venivano dagli studi compaiono in quei solchi. Ma un accenno alla musica è corretto : se il primo è un vero ibrido di art rock e glam, con composizioni talvolta brevi, dove la pura sperimentazione di porre nella medesima stanza musicisti con estrazioni e sonorità diverse e provare a vedere cosa ne sarebbe uscito fuori giocava con l’istinto pop lucidamente evidenziato dai “suoi” Roxy, gli altri due album nascevano dalla creativa follia di utilizzare le “Strategie Oblique” per scegliere la via da intraprendere.

Le “strategie oblique” esistevano veramente ! Erano un mazzo di cento carte contenuto da una scatola nera inventato da Brian Eno insieme al musicista tedesco Peter Schmidt; le carte erano nere da un lato e bianche dall’altro e ognuna conteneva un aforisma spesso difficile da decifrare che avrebbe dovuto favorire la rottura dei blocchi mentali spingendo l’utilizzatore ad un pensiero “laterale” ossia che permettesse l’osservazione dell’oggetto da un punto di vista diverso. Pare un delirio ma ricordate che le “strategie oblique” sono state utilizzate da Eno nella produzione degli album di Talking Heads, Devo, David Bowie e parecchi altri che sicuramente avrete ascoltato.

Il risultato è assolutamente anomalo, composizioni solo apparentemente semplici si susseguono lasciando all’ascoltatore suoni e ritmi che restano in mente e che riaffiorano ciclicamente dopo averle assimilate. Poco importa che basso e chitarra, pianoforte, possano suonare non accordati : il risultato è sorprendente ! Sul primo Warm Jets, poi, compare quella Baby’s On Fire che con i suoi cinque minuti incorniciati da un assolo tagliente e lunghissimo di Fripp, viene definita “una meraviglia a due note costruita attorno a una colata di note infernali impazzite”. Ed improvvisate, aggiungiamo noi.

Taking Tiger Mountain inizia il mutamento verso suoni più di ambiente, anche se la melodia scordata e la follia degli improbabili testi permane. Le melodie altalenanti sono ipnotiche e se volete una citazione, The fat lady of Limbourg o la prima Burning Airlines Give you so much more sono perfette per inquadrare l’oggetto. Il terzo Another Green World è fondamentale per metà della new wave dei settanta e per tutti i musicisti che si sono dovuti confrontare con la musica elettronica… i tedeschi devono aver ascoltato questo album migliaia di volte. Credo che con la giusta disposizione d’animo, tutti e tre vi appassioneranno, facendovi rimbalzare le loro note in testa per molto tempo.

Vi avevo detto prima nessuna omogeneità.

Nel contenitore ho messo il live dei Samson a Reading, annata 1981. Un disco che dovevo avere perché c’ero, stavo sotto il palco a chiedermi dove fosse finito quel bestione di batterista chiuso in gabbia l’anno precedente, poco prima di andare nel retropalco ed assistere alla famosa offerta dei Maiden al giovane Bruce Dickinson di mollare un gruppo al terzo disco, Shock Tactics, e passare a uno che sarebbe diventato la forza della EMI e l’icona metal degli anni a venire. Forse di mezzo c’era lo zampino di Clive Burr, che proprio con i Samson aveva iniziato la sua carriera. I Samson mi piacevano proprio : un approccio lineare, semplice, vecchio stile direi. Con composizioni che c’erano e si sentivano dal primo ascolto, ma che quel bassotto capellone rendeva ancora più preziose con la sua voce. Paul Samson non era il classico “eroe” della chitarra (in quel concerto suonava una chitarra gialla a forma di banana) ma un uomo sfortunato che aveva accarezzato un sogno per perderlo prima di lasciarci del tutto, addirittura già vent’anni fa.

Quando assistetti, tra una tartina e l’altra, cortesemente offerte dalla EMI, alla circuizione del Bruce Bruce, come si faceva chiamare, sinceramente mi dispiacque per Samson. Tutti sapevano e stavano lì a guardare, qualcuno fece anche un paio di scatti, sembrava di assistere al ratto di una giovane vita…una minuscola tragedia artistica si compiva sotto il tardo pomeriggio di Reading. Il resto è storia.

Il live è bello. Sarà perché sono un romantico, ma quasi tutti i pezzi di quel disco mi sembrano buoni, ben suonati, tosti, meritevoli : Big Brother, Hammerhead, Walking out on you, Earth Mother, Vice Versa… trovo solo, oggi, un po’ banale la batteria di Mel Gaynor, un pestatore di pelli che finì poi con i Simple Minds. Un tuffo nel mio passato che spesso finisco con il doppiare andando a riascoltare All the Lessons, il live non ufficiale dei Rose Tattoo, un altro gruppo di quella esperienza e che da allora amo alla follia : rock and roll allo stato puro ma che stavolta non ho infilato nel contenitore.

Se avete imparato a conoscermi, sapete che ho una predilezione per i musicisti anomali, creativi, che non hanno un approccio lineare alla propria produzione, che sanno muoversi attraverso diversi generi e che, ancor meglio, li miscelano, condensandoli in suoni che quanto più si allontanano dalla norma, tanto più mi appaiono meritevoli di studio.

Nel contenitore è finito anche un disco di Steven Wilson, un artista che non provo neppure a descrivervi perché le sue avventure sono così intricate che necessitano, se ne aveste bisogno, di ricostruirle con il caro, vecchio Google. Wilson, i cui Porcupine Tree restano la band di riferimento, ha una carriera solista notevole, dove, a mio parere, si erge questo The raven that refused to sing and other stories. Un disco senz’altro progressivo, con lunghe sezioni strumentali che non possono non ricordare quelle più melodiche degli amati King Crimson, ma che grazie alla visione tutta personale del Wilson, diventa un disco che è impossibile non amare e non ascoltare centinaia di volte senza esserne mai delusi e trovandovici sempre un suono, una particolarità nuova. Questo grazie a un gruppo di prima qualità che lo accompagna e dove brilla l’incredibile chitarrista Guthrie Gowan ma anche dal tocco di Alan Parsons che dona alle sei storie dai contenuti soprannaturali che affascinano per fantasia e istinto anomalo con un occhio che guarda di traverso… forse le strategie oblique di Eno… a Edgar Allan Poe.

Un paio di assaggi ai contenuti : in The Pin Drop chi canta è una moglie defunta, uccisa dal marito ed il canto proviene dal fiume dove è stata gettata; The Watchmaker è una storia di fantasmi che non può non ricordare The cast of Amontillado di Poe…mentre la canzone che dona il titolo all’album è la storia di un corvo che va a trovare un uomo alle soglie della morte e che crede che l’uccello sia lì per cantare come faceva la defunta sorella per lui.

Beh, sì…Poe non può non tornare sempre in mente.

I testi sono decisamente interessanti, disegnati all’interno del pezzettino di plastica che contiene il pezzettino di carta, come se si trattasse di sei incubi ricorrenti e la musica eccellente; se non vi fosse mai capitato per le mani, questo è un album da avere assolutamente. Ed un ottimo inizio per imparare a conoscere un personaggio unico : grande musica, grandi brani, grandi esecuzioni.

L’ultimo album di questa confusa spiegazione di come mi faccia avvolgere dalla musica nei miei viaggi, è un prodotto italiano, dell’unico gruppo che, polemiche a parte, abbia mai avuto un reale riconoscimento all’estero senza ricorrere a particolari spinte promozionali o una critica amica. Un gruppo che, pur partendo da sonorità tipiche del progressive inglese, aveva saputo mediarlo con uno spirito e una spina dorsale tipicamente italiane e che, forse, solo a causa di un paio di scelte sbagliate condizionate da uno spirito politico che all’estero proprio non si confondeva con il business musicale. Eppure la Premiata Forneria Marconi aveva avuto uno “scopritore” come Greg Lake che li aveva portati alla sua etichetta Manticore e introdotti a Peter Sinfield che ne aveva scritto i testi inglesi.

Tutto sembrava girare al meglio, poi una copertina con la bandiera americana stracciata, un paio di dichiarazioni di troppo, una al festival di Reading ed una in tour in America… e la fortuna girò la testa dall’altra parte. Live in USA resta un buon testamento, un ottimo modo per dare una via italiana al progressive, con Four holes to the ground a inchiodare per sempre il momento perfetto che questo grandissimo gruppo italiano ha vissuto. La loro storia musicale è lunghissima e variopinta; personalmente sono i loro anni settanta ad affascinarmi di più, ed è con questo Live che me li ricordo al meglio.

Un porta cd ne contiene almeno una ventina, grosso modo. Ma questo estratto di viaggio si ferma qui; Rory, i Dead, Phish, Whitesnake ed altri riempiono gli altri spazi. Ho deciso che la prossima volta li riempirò tutti con una manciata di dischi “di tributo”, una cosa che a volte mi suona bellissima e azzeccata e a volte mi manda in bestia per come vengono affrontati certi brani monumentali… sapete che vi prometto…o vi minaccio ? Quando avrò assimilato bene quei dischi di tributo, ne parleremo insieme, perché molte volte le cover sono un modo eccellente per mostrare il proprio amore per la Grande Musica. Vedremo chi e come.

14 Commenti

  • Nicola ha detto:

    Che bello rileggerti, Giancarlo, con Beppe Riva sei un eroe della mia gioventù!

  • Maurizio ha detto:

    Sto cercando di recuperare, possibilmente nelle edizioni originali, i vinili che ad inizio anni 80 non potevo permettermi perché le tasche coprivano al massimo due dischi al mese. Era qualcosa di magico cercare e trovare nelle vasche QUEI titoli e poi dover sceglierne uno solo….beh,ieri alla fiera del vinile mi sono tolto qualche soddisfazione. Molly Hatchet, Hair of the dog dei Nazareth e SOPRATTUTTO Borrowed Time dei Diamond Head. Un viaggio nel tempo e nei ricordi .Però un hard disk con tutti i tuoi pezzi preferiti da tenere in auto ha il suo perché e le sue comodità….grazie per la vostra competenza.

    • Giancarlo Trombetti ha detto:

      Beh… specialmente per chi vive spesso in auto, avere bella musica come compagnia aiuta molto… ho appena fatto un lungo viaggio con due amici che proprio non volevano ascoltare musica. È stata una sofferenza 🤣 in bocca al lupo per le tue ricerche.

  • ANGELA ha detto:

    Bellissimo articolo… bravo Giancarlo! Ti leggo sempre molto volentieri. Sì perché, nonostante io sia una fanciulla (forse, per molti, la musica che racconti è, soprattutto, “roba da uomini”), io mi ci ritrovo in pieno nelle atmosfere che descrivi. Eh già… l’età è quella, ahimè! Ma anch’io ascoltavo (e ancora ascolto) tanta roba simile (ogniuno poi frequenta le “nicchie” e i sentieri musicali a lui più congeniali e/o necessari in quel particolare momento). Musica che suona forte… Grazie. Al prossimo articolo… Ciao.

    • Giancarlo Trombetti ha detto:

      Grazie Angela… il gusto musicale non è prerogativa dei soli maschietti. Diciamo che loro si fanno sentire di più… tu alza la voce 😉

  • Massimo Devitor ha detto:

    Lettura gradevolissima,interessante,nostalgica,intrisa di quel soffice orgoglio tipico di chi alla musica si è offerto totalmente con Anima e corpo.
    Per quelli a cui ” illo tempore” i soli ascolti non bastavano (e quindi ricercavano voracemente notizie e recensioni) la “penna” di Trombetti era un riferimento …una sorta di porto sicuro a cui attraccare .

    Fa piacere dunque ritrovarla qui,quella “penna” ,che oggidì risuona quasi come un memento delle nostre vere e antiche radici sonore.
    Grazie ad esse siamo in grado di riconoscere con precisione,tra le odierne,infinite,spesso marasmatiche “situazioni” musicali, quelle che per noi ancora recano la magia del nutrimento animico: Wilson ne è un esempio.

    Grazie Giancarlo.

    • Giancarlo Trombetti ha detto:

      Grazie a te per le belle parole. Fin troppo. 🙂

      • Giorgio ha detto:

        Si l’ Appennino è in apnea, soffocato da incompetenza e mancanza di visioni. Gli rubano ogni giorno un pezzo di servizi che uccide la sopravvivenza di pochi eroi. Voglio ancora crederci ma ho il timore che le sapienze antiche si siano perse , giù verso il cemento che oscura il mare. W il vinile con tutte le sue sfumature . Un abbraccio

        • Giancarlo Trombetti ha detto:

          Sapete che c’è ragazzi ? Un giorno, presto, parleremo di montagna …e musica … e spero che molti entrino nel discorso montagna per poi girare i nostri pensieri a chi dice di pensare a noi… che ne dite?

  • ANDREA ha detto:

    Ciao Giancarlo ,
    Sempre un piacere leggerti tutto di un fiato.

  • Enri1968 ha detto:

    Mi sono segnato di rileggere bene l’articolo, mi ha molto incuriosito da appassionato di musica. Grazie.

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