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C'era una volta HARD & HEAVYReliquie PROG

Heavy-Prog a 24 Carati: dalle glorie dei Seventies

Di 12 Ottobre 202219 Commenti

All’alba della “nuova era” progressive degli anni ’70, anticipata dalla feconda creatività di “In The Court” dei King Crimson, i diffusi slanci verso la libertà espressiva del rock e le “contaminazioni” con la musica classica e jazz, avevano reso anacronistiche le canzoni pop di tre minuti ed il formato ridotto del 45 giri, superato dalle accentuate ambizioni del long playing, non più relegato a mera raccolta di singoli.
Il bersaglio preferito della critica era però l’heavy rock.
Sulla scia di certo snobismo tipico della stampa inglese ma non solo, anche i giornalisti “specializzati” della Penisola scagliavano i loro anatemi contro il rock duro, reo di insistere su schemi ripetitivi, addirittura “triti e ritriti” per i censori più spietati.
Opinione diffusa era che dopo un esordio discretamente originale, le bande dedite a quel genere musicale ne ricalcassero la formula, insomma, lo stesso film ripetuto in eterno.
Dunque, gruppi poi passati alla storia nelle gerarchie più elevate del rock erano trattati alla stregua di “macchine da soldi”, che spacciavano cattivo gusto per musica rivolgendosi a masse ottuse…Stroncature che generavano frustrazione nei giovani di allora che amavamo il suono “distorto e superamplificato”; ci chiedevamo come mai fossimo tanto ignoranti da non coglierne i limiti…!
Analoghe reprimende venivano poi dirette al cosiddetto heavy metal, etichetta affibbiata nella prima metà dei ’70, specie ai gruppi americani che da tempo non sono più considerati “rappresentanti” di quella tipologia (Aerosmith, Blue Oyster Cult e Kiss, ad esempio).
Ma tornando alle origini del decennio, in realtà lo spirito del progressive aveva contagiato anche l’hard rock, non a caso gli antesignani Deep Purple si erano cimentati proprio nel 1970 in un serioso “Concerto For Group And Orchestra”, prima di innescare il tritolo del deflagrante “In Rock”.
Giusto rivalutare anche una suite all’epoca ampiamente sottovalutata come “Salisbury”, titolo-guida del secondo album degli Uriah Heep (1971), dal copioso arrangiamento orchestrale. Ma non era necessario spingersi nelle sinfonie elettriche e nemmeno d’obbligo l’innesto di straripanti tastiere,  per rappresentare un termine un po’ abusato ma realistico come Heavy Rock Progressivo o per farla breve, Heavy-Prog.

E come suggerisce un vecchio aforisma, “il tempo è galantuomo”, ristabilisce diritti veritieri, così grazie ad una revisione critica operata da illuminati studiosi della storia del rock veniva restituita dignità ad un genere, l’Heavy-Prog, che in realtà non era rock duro e basta, come spesso veniva liquidato, ma recepiva stimoli esterni per sviluppare una personalità musicale spesso caratteristica e versatile, che accettava la commistione con altri organismi musicali.
Vediamo come venne risolta questa tendenza stilistica, in tempi & modi diversi, rivisitando tre esempi altamente significativi, partendo dal classico “Argus” dei Wishbone Ash, cinquant’anni (e qualche mese…) dopo.

Deep Purple con l’Orchestra: padrini Heavy-Prog

WISHBONE ASH: “Argus” (MCA 1972)

Wishbone Ash è un gruppo che ha impartito una svolta nel rock inglese, quando le formazioni heavy erano dominate da una chitarra tirannica (Page, Blackmore, Iommi, Box…), affiancata dalle tastiere nei moduli più vicini al progressive, ed il loro suono prevalentemente basato sui riffs.
Invece il quartetto giunto dalla contea inglese del Devon, appariva sulla scena di Londra nel 1970, elaborando un personalissimo linguaggio musicale basato sulle cesellate, mutevoli armonie delle “chitarre gemelle” di Andy Powell e Ted Turner. Alle spalle dei solisti (nessuno dei due è relegato al tradizionale ruolo “ritmico”) suonano i fondatori, il drummer Steve Upton ed il bassista Martin Turner; quest’ultimo non è fratello di Ted, ed è il più presente nelle parti vocali, che divide con i due chitarristi. Anche così gli Ash prendono le distanze dalla formula hard rock ricorrente, rinunciando ad un vero e proprio cantante solista, e la scelta si rivela estremamente funzionale alle loro intricate composizioni. Si affacciavano subito in classifica con l’omonimo album “Wishbone Ash” (1970), migliorando le quotazioni con il successivo “Pilgrimage” (1971), ma è il terzo “Argus” (28 aprile 1972) che vale l’autentica consacrazione, portandoli al n.3 nelle charts inglesi, la posizione più alta mai raggiunta dal gruppo. Ancor più gratificanti i responsi dei rock polls delle principali riviste, Melody Maker e Sounds, che premiano “Argus” come miglior album dell’anno, davanti a concorrenti del calibro di “Machine Head” dei Deep Purple e “Thick As A Brick” dei Jethro Tull!
In occasione del suo 50° Anniversario, trascorso da pochi masi, si poteva immaginare una ristampa “deluxe” di questo classico rock senza tempo, invece tutto tace dal formato 2 CD di quindici anni fa, pubblicizzato come definitivo, incluse registrazioni dal vivo della BBC ed altre sparse “rarità”.
I Wishbone Ash, tuttora attivi agli ordini di Andy Powell, unico superstite dell’originale formazione, hanno comunque festeggiato l’evento con le rituali Live Dates, tanto per menzionare il loro storico doppio LP dal vivo di fine ’73.

Al di là della mancata celebrazione discografica, “Argus” resta un album fondamentale, con quello stile epico delle twin guitars ed il gusto della rievocazione storica nei testi, che molto ispireranno le evoluzioni hard’n’heavy, dai Thin Lizzy agli Iron Maiden. Ricordo di aver scritto intorno al 1980 che i fraseggi dei due solisti di Iron Maiden (e di altri gruppi minori NWOBHM) portavano alle estreme conseguenze la lezione del binomio Powell-Turner. Per restare in tema, l’ingegnere del suono dei primi Wishbone Ash era quel Martin Birch, già affermato con i Deep Purple, poi celeberrimo come produttore degli stessi Maiden (per non citare Black Sabbath, Rainbow, B.Ö.C. etc.). Il produttore di “Argus” era invece Derek Lawrence (già con Deep Purple Mk I), poco riconosciuto dal grande pubblico ma per me favolosamente legato ai nomi di Angel e Legs Diamond.
La raffinatezza delle armonizzazioni di chitarre degli Ash è esemplare come poche altre, ad esempio nei passaggi acustici d’atmosfera folk del brano d’apertura, “Time Was”, che lasciano spazio ad un’incalzante esibizione rock, per ammissione degli autori influenzata dagli Who, con i quali erano stati in tour. “Sometime World” evidenzia quanto i cori vocali del gruppo discendessero da Crosby, Stills, Nash & Young più che dalle potenti ugole della musica heavy, ma nell’assolo di Andy Powell c’è tutto l’orgoglio e la forza espressiva del classico rock inglese! “Blowin Free” è fra i brani più immediati del loro repertorio, con il suo riff seminale, slanci boogie e melodie vocali ancora di stampo west-coastiano. Il tema biblico di “The King Will Come” e la valorosa “Warrior” sono autentici gioielli della corona hard rock, e testimoniano la vocazione di precursori dei Wishbone Ash. Anche la copertina di Storm Thorgerson/Hipgnosis, una rappresentazione di Argus, gigantesco guardiano della mitologia greca, riflette idealmente il clima di questi brani: impossibile non emozionarsi al loro ascolto, amando questo genere di musica! L’album riserva altre meraviglie negli accenti folk di “Leaf And Stream” e nel sensazionale finale di “Throw Down The Sword”, rock chitarristico all’ennesima potenza. Nella lunga storia del gruppo, “Argus” resterà il loro impareggiabile capolavoro, anche per il suo maggior stampo british; infatti, con il successivo album di studio “Four” proseguivano la marcia d’avvicinamento verso il rock americano (al punto di far pensare ad una versione britannica degli Allman Brothers), che si accentuerà nel corso dei Settanta.
Negli U.S.A. la band aveva effettuato tour di lusinghiero successo fin dalle origini, fra il 1970 ed il ’72. Lo testimoniava anche l’EP promozionale radiofonico “Live From Memphis”, registrato nell’agosto 1972, sulla scia del successo di “Argus”.

Andy Powell ieri…

… Andy Powell (a dx) oggi

ARMAGEDDON: “Armageddon” (A&M 1975)

Chi ben conosceva Keith Relf, assurto alla gloria come cantante ed armonicista degli Yardbirds, nucleo stellare del rock inglese anni ’60, non si è mai spiegato la sua decisione di fondare gli apocalittici Armageddon, un quartetto che nel 1975 incarnava il concetto d’epoca del termine “heavy metal”. Relf aveva infatti abbandonato gli Yardbirds perché stanco delle loro spigolose sonorità blues, ed in cerca di serenità, aveva fondato gli acustici Together, rito propiziatorio che preludeva agli ambiziosi Renaissance.
Nel 1969 i Renaissance realizzavano il fascinoso album d’esordio, una pietra miliare del prog rock folksy, e la seducente voce di Jane -sorella di Keith- regalava alla storia l’indimenticabile melodia di “Wanderer”: ne consiglio l’ascolto a timpani per nulla avvezzi al rock duro.
Ma il secondo LP “Illusion” vedeva la luce solo in Germania ed il biondo Relf, avvilito dall’insuccesso, decideva di ritirarsi temporaneamente, dopo una rapida apparizione nei Medicine Head, fino al vendicativo come-back negli Armageddon. Un progetto contraddittorio rispetto alle precedenti scelte del “quieto” Keith, che avvallò il sospetto di un’impresa dai fini commerciali, poiché verso la metà degli anni ’70 l’heavy rock imperava in America, dove i musicisti erano emigrati, ed il nuovo quartetto spiccava il volo dalla California.
Effettivamente nome e copertina dell’LP, che simbolizzavano in chiave moderna il biblico Armageddon, ossia lo scenario della rovinosa battaglia fra le forze del Bene e del Male che porterà alla “fine del mondo”, sembravano concepiti per alimentare certe catastrofiche visioni già tipiche dell’heavy metal, ed il suono, intricato ed aggressivo, era decisamente in linea con l’apparato iconografico. Purtroppo il concetto è tragicamente tornato d’attualità; tutti sappiamo perché oggi si paventa l’orrore dell’Armageddon atomico, ma qui restiamo negli “incubi” dell’onirica creatività musicale.
Keith Relf e compagni costituivano un autentico supergruppo: accanto al cantante tornava infatti il bassista Louis Cennamo, già negli Herd, Jody Grind e Steamhammer, che lo affiancò nei Renaissance e Medicine Head; dagli Steamhammer (una leggenda del rock blues britannico) proveniva anche il chitarrista Martin Pugh, misconosciuto “eroe dell’ascia” che aveva suonato anche con Rod Stewart ed è l’autentica vedette del solitario “Armageddon”. Infine, il batterista è reclutato nella base californiana; di tratta di Bobby Caldwell, a sua volta con un eloquente passato, già gregario dei fratelli Johnny e Edgar Winter e reduce dall’esperienza “freaky” hard rock con i pionieri dello stoner, Captain Beyond, completati da Rod Evans (esule dei Deep Purple) e dai due ex-Iron Butterfly.
La nuova formazione conquistò le immediate attenzioni della A&M e del manager Dee Anthony, lo stesso di ELP e Peter Frampton. Così volava a Londra nell’autunno ’74, per registrare l’omonimo “Armageddon”. Uscito nel 1975, è da inquadrare a posteriori nel filone heavy-progressive, dominato com’è dalla virtuosistica azione della solista di Pugh, che nonostante i ritmi incalzanti e la durezza espressiva riesce ad articolare fraseggi multiformi e raffinati, con sensibili sfumature jazzy. L’iniziale, entusiasmante “Buzzard” è un’immediata esibizione del suo talento, che ruba la scena alla voce di Relf, mai così spettrale, prima del saggio di armonica blues offerto nel finale dall’ex Yardbirds. Differenti gli orizzonti di “Silver Tightrope”: una ballata elettrica dal mood arcano, la pace ritrovata dopo l’accanimento della battaglia, ma il senso di sofferenza permane…”Paths And Planes And Future Gains”, con il suo riff serrato e la voce rampante di Keith, è invece un’ideale rappresentazione di “heavy metal” evoluto dei mid-seventies.

Infine un monumento allo stile complesso e drammatico del quartetto, “Basking In The White Of The Midnight Sun”, che si distende in quattro movimenti che sfiorano i complessivi dodici minuti, decisamente liberi da restrizioni schematiche e votati all’improvvisazione strumentale.
Gli Armageddon finiscono già sul nascere per problemi di disciplina di gruppo, causati dall’abuso di sostanze stupefacenti, rinunciando così a promuovere il disco in tour.
Keith Relf aveva repentinamente avviato l’opera di rifondazione dei primi Renaissance, ribattezzati Illusion (che continueranno in sua memoria…), quando viene ucciso da una fatale scarica elettrica della sua chitarra, il 14 maggio 1976.
Senza di lui, i resti degli Armageddon perdono il contratto discografico e le registrazioni del secondo album, iniziate con il cantante Jeff Fenholt, non vedranno mai la luce. Reputo si tratti dello stesso interprete del musical “Jesus Christ Superstar”, fugacemente apparso nei Black Sabbath e deceduto nel 2019. Non mi risulta che queste fantomatiche sessioni siano apparse su supporto fonografico in tempi successivi, pur prodighi di ogni genere di ristampe…
Resta dunque l’isolato exploit, da non confondere con un precedente “Armageddon” tedesco del 1970, scritta nera su fondo bianco in copertina, pur interessante e con radici musicali affini, svelate dai rifacimenti di “Rice Pudding” (Jeff Beck) e di “Better Than You, Better Than Me” degli Spooky Tooth, ripresa in seguito dai Judas Priest.

Keith Relf barbuto, seventies-style

FUZZY DUCK: “Fuzzy Duck” (MAM 1971)

La parabola discografica dei Fuzzy Duck è tutta concentrata in un solo anno (1971), ma ciò non ha impedito al loro unico album di passare alla storia fra i classici dell’hard rock progressivo. Il quartetto nasceva a Londra nel 1970 per opera del bassista Mick Hawksworth, già nei Five Day Week Straw People e negli Andromeda, formazioni gloriosamente psichedeliche capitanate da John DuCann; al suo fianco un tastierista, Roy Sharland (già con Arthur Brown e negli Spice, futuri Uriah Heep) paragonabile nello stile al contemporaneo partner di DuCann negli Atomic Rooster, Vincent Crane. Completavano i ranghi il chitarrista Graham White ed il drummer Paul Francis, ex-Tucky Buzzard. Questi ultimi infittivano lo schieramento rock-blues ad alto voltaggio di fine anni ’60, godendo di maggior risonanza rispetto ad altri, grazie alla produzione del Rolling Stone Bill Wyman.
Se non proprio di supergruppo, si poteva dunque parlare di musicisti già ampiamente collaudati.
I Fuzzy Duck suscitavano così l’attenzione del manager di Tom Jones, Gordon Mills, diventando l’unico complesso underground scritturato dalla sua label, Mam. Il problema è che Mills li trattò proprio come artisti di “nicchia”, stampando solo 500 copie dell’omonimo LP d’esordio, e disinteressandosi della sua promozione, nonostante la favorevolissima recensione del New Musical Express. Stimato a posteriori fra i lavori più intriganti del suo genere, diventerà quotato oggetto di ricerca dei collezionisti, al punto che si favoleggiava di un poster presente in un numero ancor più limitato di esemplari, “rumore” a quanto pare infondato. E’ invece tristemente certo che in un’epoca assai favorevole all’heavy-prog, passarono inosservati brani di grande impatto che potevano rivaleggiare, se non con il successo abbagliante dei Deep Purple, almeno con episodiche hits degli Atomic Rooster, stilisticamente affini: specialmente “More Than I Am”, munito di un riff che riecheggia “Sleepin’ For Years” (da “Death Walks Behind You”) e “Country Boy”, che a dispetto del titolo sfoggia i fraseggi d’organo più scatenati ed avvincenti.

Sharland, che a differenza dei compagni non si farà più notare dopo la dissoluzione dei Ducks, resta un misconosciuto “stregone” delle tastiere: nello stile ritmicamente incalzante di “Mrs. Prout” e “Time Will Be Your Doctor” emula maestri dell’organo Hammond quali Jon Lord, Ken Hensley e lo stesso Crane. Anche “Double Time Woman”, facciata A del primo singolo (agosto 1971) era un potenziale best-seller, e grazie alle evoluzioni vocali di White, il paragone con i Deep Purple di Ian Gillan non sembrava insostenibile. Fra gli episodi salienti anche l’eccellente escursione psych di “Afternoon Out”. Dopo il secondo singolo “Big Brass Band” (novembre ’71), il quartetto che aveva già perso White –in seguito nei Capability Brown- finiva i suoi giorni, rovinato da un manager in tutt’altre faccende affaccendato.
Hawksworth farà ancora la sua parte con Matthew Fisher e Ten Years Later, a fianco dell’eroe di Woodstock, Alvin Lee; Francis si metterà al servizio di una quantità di artisti, fra i quali Mick Ronson e Chris Spedding. Garth Watt Roy, il chitarrista che sostituì brevemente White, suonerà anche con i misconosciuti – a dispetto del nome – Greatest Show On Earth. Nulla offusca però la memoria del Papero hippy con criniera afro di memoria hendrixiana. I brani aggiunti in successive riedizioni (fra le altre Repertoire, Akarma, Esoteric) sono sempre gli stessi, ovvero le tre facciate dei singoli non incluse nell’originale LP, oltre alla trascinante “No Man Face”.

Ten Years Later: Mick Hawksworth (a dx) con Alvin Lee

19 Commenti

  • Riccardo ha detto:

    Ciao Beppe , un caro saluto da un commesso di un negozio che frequentavi a Cusano Milanino.
    E sempre bello rileggerti , e mi ricordo i bei momenti passati quando venivi il sabato di solito .
    Ciao

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Riccardo, se la memoria non mi inganna tu eri il titolare del negozio Mellotron! Ti ringrazio della lettura e ben ricordo quando avevo più tempo di frequentare i negozi di dischi: una volta ce n’era una vasta scelta, oggi no, purtroppo. E’ vero, erano bei momenti. A risentirci.

  • Lorenzo1962 ha detto:

    gli ARMAGEDDON erano spettacolari, come lo erano gli STEAMHAMMER con il loro Heavy Blues .
    Buzzard già proposta con gli STEAMHAMMER con altro titolo, è il brano Proto Metal per le nuove band del periodo.
    a proposito degli STEAMHAMMER bisogna sottolineare la reunion con il nuovo album con i vecchi membri John Lingwood e Martin Pugh, con l’aggiunta al basso di Pete Sears, altro vecchio leone degli anni ’60/’70 già con Sam Gopal Dream , poi nel primo Steamhammer del 1969, per poi confluire in band come JADE, STONEGROUND, SILVER METRE ecc.
    un gradito ritorno in stile Heavy Blues come ai vecchi tempi, da avere.

  • Renato ha detto:

    Ciao Beppe,

    sono Renato Ferro di Padova (fratello di Antonio Ferro di “Fireball”), sono intervenuto nel tuo blog qualche mese fa.

    Seguo sempre con attenzione il tuo blog, e leggo con immutato piacere i tuoi interventi e post, anche se per motivi generazionali e di formazione musicale prediligo le trattazioni più rigorosamente hard rock e metal incentrate negli anni ’80, che rappresentano il mio “background” storico.

    Ti scrivo per informarti che è appena uscito (su edizioni CRAC) un libro intitolato “FIREBALL – L’avanguardia dell’heavy metal negli anni ’70 e ’80 a Padova e nel Veneto”, un libro-intervista a me e a mio fratello Antonio che ripercorre tutta la storia della fanzine e della successiva agenzia promozionale (organizzazione di concerti e label specializzata) negli anni 80 e primi 90.

    La prefazione è curata da Gianni (Della Cioppa), e, ovviamente tu sei citato nel testo in più parti, sia come mio modello ispiratore sullo stile di scrittura, sia come pioniere del giornalismo HM in Italia.

    Solo tu o chi come noi ha vissuto quegli anni può capire la passione e l’entusiasmo che pervadeva un periodo in cui i mezzi informativi erano scarsi, ma si ricorreva ad ogni mezzo per conoscere le novità e procacciarsi le uscite dei nostri artisti preferiti…il libro infatti percorre anche quei momenti emozionali, che oggi non sono più patrimonio dei contemporanei…

    Ti ringrazio in anticipo e ti saluto con affetto.
    Renato

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Renato, mi ricordo bene di te e dell’attività di “Fireball” di tuo fratello Antonio. Ti ringrazio delle gentili parole e se c’è un link a cui i lettori possono collegarsi per ordinare il libro, puoi scrivere qui e lo metto a disposizione di chi è interessato. Lettori appassionati della scena heavy anni ’80 che citano quel periodo con entusiasmo, come dici tu, sono ben presenti. A risentirci

      • Renato ha detto:

        Ciao Beppe,

        il libro a cui mi riferivo nel precedente post “FIREBALL – L’avanguardia dell’heavy metal negli anni ’70 e ’80 a Padova e nel Veneto” di Riccardo Pasqualin (EdIzioni CRAC) è ordinabile al prezzo di 18 euro (compresa la spedizione) scrivendo al seguente indirizzo: riccardo.pasqualin@libero.it

        Ti ringrazio ancora.

  • Andrea ha detto:

    Ricordo un ragazzino di 14 anni che entrò casualmente in una radio privata a Latisana nel 1980.
    Ricordo lo stupore che provò nel vedere scaffalature di dischi avvolgere le pareti circolari (la radio M13 si trovava in un acquedotto dismesso!) e l’emozione nello scoprire album dalle copertine spettacolari contenenti una musica mai ascoltata prima.
    E poi ricordo il suo amico che leggeva Rockerilla perché ascoltava la musica Punk e New Wave, che al ragazzino non piacevano per nulla. Ma ricordo anche che l’amico segnalò al ragazzino che nella rivista c’era un inserto di musica Hard Rock, ma non solo dei gruppi appena conosciuti, ma soprattutto nuove band introvabili nel negozio di dischi del paese. Fortunatamente c’era la Dimar con i cataloghi per corrispondenza, ma non potendo ascoltare il disco prima dell’acquisto bisognava fidarsi, non si poteva sbagliare, e così quel ragazzino imparò che le recensioni scritte in particolare da una firma dell’inserto erano delle garanzie!
    Ad ogni uscita del mensile scattava la disperata ricerca dei dischi recensiti da quel giornalista, del quale aveva imparato subito il nome e cognome, grazie alla sua grande capacità nel segnalare nuove uscite, soprattutto di gruppi sconosciuti emergenti, che da lì a poco sarebbero diventati delle vere e proprie star, oppure destinati ad una sorte meno fortunata, ma non certo per demeriti musicali.
    Poi le trasferte del ragazzino a Udine, a quel negozio di dischi che non c’è più, la Mofert, dove il “Barba” estraeva dagli scaffali, tra gli altri, proprio i dischi recensiti dall’inserto della rivista e la continua voglia di maggiori notizie sul mondo della musica tanto amata, l’acquisto di Kerrang!, il proliferare delle fanzine italiane e poi Hard & Heavy e finalmente Metal Shock, un periodico dedicato solo ed esclusivamente alla musica amata, dove poter trovare tutte le novità musicali HR/HM, nonché uno spazio dedicato alle reliquie discografiche, una vera macchina del tempo la cui guida era affidata al suo giornalista preferito.
    Crescendo, grazie a ricerche personali, ad amici e al titolare illuminato di un altro negozio che non c’è più, il Vinyl Salvage, ha ovviamente ampliato i propri orizzonti musicali ed oggi nella scaffalatura dell’ex ragazzo ci sono oltre un migliaio di dischi, più un centinaio di CD e svariate cassette, frutto di continui scambi musicali tra amici.
    Oggi il ragazzino è un adulto, gli impegni lavorativi, famigliari e nuove passioni hanno ridotto molto le occasioni di ascolto, ma quando gli capita di incontrare qualche vecchio amico, rispolverando inevitabilmente la propria immensa passione della lontana gioventù, finisce sempre per rendere onore in primis a quella lucidissima penna che ha acceso un riflettore sulla musica che è diventata la colonna sonora della sua vita.
    Grazie Beppe, di cuore!
    E’ un piacere immenso ritrovarti in forma …to digitale

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Andrea, hai scritto un ricordo bellissimo, innanzitutto del tuo cammino nel mondo della musica, poi sono davvero lusingato per il ruolo che mi hai attribuito. Quel senso di riconoscenza trasmesso dai lettori è il motivo che mi ha indotto a riprovarci in “formato digitale”. Anche per questo, nonostante il finale negativo, proverò sempre gratitudine nei confronti di Rockerilla; senza quella rivista le cose sarebbero andate diversamente. Comunque anche Rockerilla dovrebbe riconoscere che il pubblico hard’n’heavy ha contribuito molto al suo successo negli anni 80. In una recente rievocazione su YouTube, tutto ciò è stato dimenticato, compreso l’effettivo fondatore, il signor Beppe Badino, che personalmente ringrazio di avermi dato fiducia, tanti anni fa. Come ringrazio ogni appassionato lettore. Buon weekend!

  • Massimo ha detto:

    Ciao Beppe. Premetto che considero il primo “Live dates” un album-dal-vivo da avere assolutamente, proprio in quanto ulteriore “upgrade” di alcuni estratti da “Argus”; ma, lo sai meglio di me, negli anni ’70 spesso i live album ovviavano a certe carenze fisiologiche delle incisioni in studio, dando loro una dimensione ancora più…esplosiva. Per chi invece avesse dei dubbi su quanto Wishbone Ash siano stati, insieme ai Thin Lizzy, importanti nella costituzione del Maiden-sound, vale secondo me la pena evidenziare che “Throw down the sword” altro non è che il modello su cui gli Iron avrebbero elaborato la loro “Afraid to shoot strangers”…non pochi anni dopo. Detto questo, sarebbe interessante allargare l’argomentazione al PERCHE’ un gruppo come i Wishbone Ash non sia mai stato davvero rivalutato, né entrato nell’immaginario generalista in qualità di illustre ispiratore (come è accaduto invece ai Diamond Head “a causa” dei Metallica, per esempio). Forse il loro non essere mai stati del tutto hard rock / heavy metal li ha penalizzati, favorendo invece i più dirompenti Black Sabbath, Uriah Heep e Deep Purple? Chissà. Sarà un piacere, per me, recuperare anche gli altri due gruppi da te trattati in questo interessantissimo pezzo. Grazie.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Massimo, nell’articolo ho cercato di mettere in evidenza alcuni aspetti atipici dello stile Wishbone Ash che li allontanava un po’ dai canoni del rock duro proto-heavy metal. Questo può aver contribuito al mancato riconoscimento di più ampia portata che hai segnalato. Inoltre, citando i Diamond Head, parli di un gruppo nato nell’ambito della NWOBHM d’inizio anni 80, un riferimento più immediato dunque. Ad esempio i Budgie, anch’essi valorizzati dai Metallica e contemporanei agli Ash, avevano forse caratteristiche più spiccatamente heavy. Harris ha comunque dichiarato l’influenza del quartetto di “Argus”. Noi gli abbiamo reso omaggio. Grazie

  • Lorenzo ha detto:

    Buongiorno Beppe.
    Dei tre conosco e posseggo Argus, direi nella deluxe in cd che hai citato, gli altri due solo sentiti nominare , vedremo di approfondire.
    Di articoli così ce ne vorrebbe uno al giorno

    • Beppe Riva ha detto:

      Eh Lorenzo, non riuscirei a tenere certi ritmi! Sono un po’ all’antica e ho bisogno di mettere insieme pensieri e documentazione alla mia maniera. Grazie e “approfondisci” che non rimarrai deluso, se sei legato a quell’epoca. Ciao

  • stefano ha detto:

    grande Beppe 3 grandi band che ho conosciuto grazie ad i tuoi articoli di metal shock e perfumed garden ricordo ancora la chiusura della recensione degli armageddon in cui facendo riferimento alla morte di keith relativa chiudevi con le seguenti parole:senza retorica né ironia una morte da vero rocker. Grazie per tutto quello che hai fatto per la divulgazione della nostra amata musica

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Stefano. Ricordate stralci che ho scritto nella quantità di materiale nel corso degli anni, ed è molto bello. Grazie a te e a voi lettori, perché senza appassionati attenti chi scrive conta poco. Cerco di stare a galla!

  • Alessandro Ariatti ha detto:

    Ciao Beppe, ricordo che scoprii Argus proprio grazie ad una tua Shock Relics su Metal Shock, ed infatti andai subito alla ricerca del disco, restandone ovviamente assai soddisfatto. Un “deja-vu” particolarmente gradito: grazie! Invece devo approfondire assolutamente gli altri due gruppi inseriti in questo tuo magistrale articolo. Li avevo sentiti nominare da amici amanti del genere ma, per un motivo o per l’altro, ho sempre rimandato. Grazie mille per l’input!
    Alessandro

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Alessandro, sono trascorsi tanti anni! Può essere che le osservazioni a riguardo siano anche cambiate a distanza di tempo. Se mi capita rileggerò.
      Grazie!

  • Civi ha detto:

    Grazie Beppe, sai sempre mantenerci viva la fiammella. 3 album fondamentali, stasera me li risento dopo tanto tempo.

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