George Lynch e Don Dokken: I duellanti
Con la trilogia di album realizzati su Elektra fra il 1984 ed il 1987, “Tooth And Nail”, “Under Lock And Key” e “Back For The Attack”, i Dokken hanno rappresentato la griffe per eccellenza dell’hard rock americano sofisticato, diffuso all’epoca sotto il rutilante vessillo dell’hair metal.
Ma se quest’etichetta fotografava una moda all’insegna di capigliature vaporose e costumi appariscenti, quello che avevo battezzato “metallo di classe” dei Dokken è tuttora contraddistinto da un’impronta indelebile. Il look che identifica una moda è per sua stessa natura volubile, transitorio, mentre la musica di valore resiste all’usura del tempo; e non meraviglia che lo “stile Dokken” fosse il risultato della chimica conflittuale fra le due personalità di maggior spicco del quartetto: il leader Don, che a suo tempo si dovette (magnificamente) adattare dal ruolo di chitarrista a quello di cantante, e George Lynch, che non poteva esser spodestato dal suo trono di solista supremo. Alle loro spalle la sezione ritmica composta da Jeff Pilson, basso e “Wild” Mick Brown, batteria, schierati per lo più dalla parte del pirotecnico Lynch, nonostante lui anelasse ad affiancare Ozzy Osbourne, prima che la scelta – sancita da “Bark At The Moon” – ricadesse su Jake E. Lee.
Secondo il produttore storico Tom Werman (Ted Nugent, Cheap Trick, Motley Crue), in difficoltà nel gestirli nonostante il suo prestigio, Don e George erano giunti al punto di odiarsi (così è riportato sul libro “Nothin’ But A Good Time”), ma paradossalmente, proprio dal contrasto fra l’attitudine melodica del leader e le spinte metalliche degli altri tre componenti, è nata la combinazione stilistica che ha reso grandi i Dokken. Nel corso dell’intervista pubblicata su Rockerilla nel marzo 1986, Don affermava: “Da parte della casa discografica c’erano molte perplessità sulla nostra musica, troppo dura per piacere al pubblico pop e troppo melodica per gli heavy metal fans, soprattutto dal punto di vista vocale. La nostra filosofia è sempre stata quella di raggiungere entrambe le audiences: noi non vogliamo essere né pop, né metal, ma solo noi stessi. Ed io non compongo mai al fine di realizzare dei brani da classifica.”
Nonostante questa dichiarazione d’intenti comune, le “battaglie” interne al gruppo erano già iniziate al tempo dell’acerbo debut-album su Carrere, “Breaking The Chains”, prodotto in Germania da Michael Wagener e Dieter Dierks (Scorpions), dopo che Don si era fatto apprezzare, registrando i cori di “Blackout”. Erano esplose tensioni sull’utilizzo di un paio di brani degli Xciter, il precedente gruppo di George e Mick, che secondo il cantante erano stati da lui riadattati, mentre gli altri due l’avevano giudicato un vero e proprio “furto”.
Anche l’album inizialmente era stato attribuito al solo Don Dokken, facendo infuriare i compagni, che imposero di eliminare il nome del cantante dalla copertina del disco.
Il livore fra i due principali protagonisti, che non è certo un’eccezione nel mondo dorato ma altamente concorrenziale del rock, continuò a manifestarsi anche negli anni di maggior successo, fino allo scioglimento nei primi mesi dell’89.
Il classico quartetto allestiva una rifondazione galeotta nel 1994 in occasione – l’unica, a livello discografico – di un album in tono minore, “Dysfunctional” (’95). Negli anni a seguire, e non ci attardiamo sulle cronologie, Don e George si sono riavvicinati in varie esibizioni dal vivo, verosimilmente per opportunità economiche, fino al reunion tour dei propri gruppi nel 2021 (vedi la riproduzione del manifesto). Anche nel terzo millennio, Jeff e Mick sono apparsi in rinnovate formazioni dei Dokken, ma da tempo non ne fanno più parte.
Ora però l’occasione è più ghiotta; infatti, dopo lunghi anni di lontananza dal mercato, i “duellanti” sembrano essersi dati appuntamento a distanza ravvicinata per le rispettive novità discografiche: il 20 ottobre è infatti uscito “Babylon” (Frontiers) dei Lynch Mob; una settimana dopo, il 27 ottobre, Dokken ha replicato con “Heaven Comes Down” (Silver Lining).
Può essere la miccia che riaccende l’antica rivalità? Intanto Jeff Tremaine, lo stesso regista di “The Dirt” – già biografia dei più celebri Motley Crue – sta girando un film per Netflix proprio sui Dokken nel periodo di maggior fulgore: di fatto, non si può parlare di revival dell’hard rock 80 trascurando questi attori di primo piano.
DOKKEN: "Heaven Comes Down"
Giunge finalmente l’ora del dodicesimo album di studio di Dokken, a ben undici anni di distanza dal precedente “Broken Bones”. Al suo fianco c’è sempre il chitarrista Jon Levin, un estimatore di George Lynch a suo tempo rivelatosi con Doro Pesch, mentre la nuova sezione ritmica, composta da due reduci degli House Of Lords, è costituita dal bassista Chris McCarvill e dal drummer Bj Zampa.
La perdurante latitanza discografica del 70enne Don è dovuta anche alle precarie condizioni fisiche; nel 2019 ha subito un intervento chirurgico alla colonna vertebrale che gli è costato una paralisi alle mani e l’uso della destra gli è stato definitivamente compromesso, impedendogli di suonare la chitarra. Inoltre l’avanzare dell’età gli ha pregiudicato l’estensione dei registri vocali, limitandone i picchi sulle note alte ed il caratteristico vibrato à la Klaus Meine.
Quindi tutto è perduto o quasi? No, perché il colpo di scena del fuoriclasse è pronto per esser rappresentato. Il titolo del nuovo album si riallaccia orgogliosamente ad un brano, “When Heaven Comes Down”, dell’album che decretò il successo dei Dokken (“Tooth And Nail”, 1984), ma è soprattutto la nuova musica degna di essere accostata alle memorie dell’epoca aurea anni ’80. Il primo singolo e tema d’apertura, “Fugitive”, introdotto da un fatale arpeggio di chitarra che sfocia in un riff al metallo cromato, instaura subito il “magico” dei classici Dokken, emulando l’atmosfera dell’indimenticabile “Will The Sun Rise”. Don appare a proprio agio esibendo i suoi toni più suadenti, mentre nell’hard rock incalzante di “Gypsy” il timbro si fa più rauco, ma non penalizza la distinzione melodica dello stile musicale; la presenza della chitarra di Jon Levin, mai invadente senza rinunciare a slanci virtuosistici, è ideale nel contesto.
Il mid-tempo cadenzato ed ispido di “Is It Me Or Is It You?” è valorizzato da un refrain dove la voce si sdoppia affinandone l’effetto levigato. Un buonissimo lavoro di produzione, che si ritrova anche in “Just Like A Rose”; con il contributo vocale di Mark Boals, affermatosi negli 80 con Malmsteen e recentemente negli stessi Dokken, il coro a cappella (anche senza base strumentale) è particolarmente riuscito, con rimembranze dell’analogo procedimento di un altro classico, “In My Dreams”. Ancora un clima sognante dal tocco spettrale in “I’ll Never Give Up”, che avvicina i modi espressivi di “Dream Warriors”.
Fra i dieci brani presentati, nessuno dei quali denuncia reali cedimenti, è doveroso segnalare altri due vertici. Il primo è l’avvincente “Over The Mountain”; il riff di chitarra è fra i più sontuosi ascoltati negli ultimi anni, e il clima è immaginifico come i paesaggi sconfinati evocati dal video (realizzato al computer ma con gusto superiore alla media), mentre le liriche si fanno più introspettive; Don si svela impegnato “nella lunga ricerca della pace della mente, scandagliando la propria anima per trovare la via da seguire, in un deserto pieno di sogni, sopra le montagne verso giorni migliori…”. Tutt’altro significato rispetto al ruolo di primadonna a suo tempo ritagliato su misura per l’altero cantante.
Ma le sue segrete ambizioni da autentico crooner, già affiorate negli anni di massima popolarità, emergono in pieno nel superbo atto finale, una canzone acustica dal sapore country intitolata “Santa Fe”, l’unica scritta da Don senza l’apporto di Levin e da lui interpretata con voce assolutamente naturale, senza artifici; è accompagnato dalla chitarra del produttore Bill Palmer, un musicista australiano, maestro del suono unplugged, già apparso con Steve Vai. Un fantastico brano intimista scritto col cuore, profondamente autobiografico, che parla di come la sua vita sia cambiata dai tempi di Los Angeles e del clamore sul Sunset Boulevard…Infine ha realizzato che era giunto il momento di fuggire in una città lontana, Santa Fe (nel New Mexico), nella speranza di trovare finalmente “la pace della mente”. Ed insistendo su questo concetto si chiude il cerchio di un anziano artista che riflette sul corso della vita, ed intanto ci regala il suo album migliore dai tempi della trilogia citata in apertura. Giù il cappello davanti a Don Dokken!
LYNCH MOB: "Babylon"
George Lynch, che è invecchiato meglio del suo compare/rivale Don Dokken, non è certo soggetto che si crogiola sugli allori dei tempi andati; fra le sue diversificate avventure musicali, è di recente uscita (del maggio scorso) “Heart & Sacrifice” il terzo album del binomio Sweet & Lynch, costituito con Michael degli Stryper.
Lynch Mob, il progetto immediatamente successivo all’acrimoniosa dipartita dai Dokken (l’opera prima, “Wicked Sensation” risale all’89) sembrava destinato agli archivi dopo l’album del 2017, “The Brotherhood” che negli intenti del chitarrista era ed è tuttora un titolo rappresentativo della fratellanza, o quantomeno della stretta amicizia che lega il quartetto al di là degli scopi professionali: tutt’altra cosa insomma dei rapporti tesi all’interno dei Dokken. Personaggio comunque non facile, George aveva deciso di ritirare la sigla nel 2021 scegliendo un nuovo nominativo, Electric Freedom. Scoraggiato dal disorientamento di pubblico e operatori discografici, il chitarrista è tornato sui suoi passi nel giro di un anno, rilanciando il rassicurante Lynch Mob e convinto di esser ormai identificato con quel brand.
Giunge così all’ottavo album, “Babylon”, affiancato dal cantante Gabriel Colon, che già si prodiga nel rilancio di nomi marginali dell’heavy metal negli anni ’80 (Savage Grace e Culprit: all’epoca quest’ultimi avrebbero meritato maggiori chances). Il batterista è Jimmy D’anda, veterano di una cometa hair metal, Bulletboys, mentre il bassista Jaron Gulino ha recentemente suonato nel terzo album dei redivivi Heavens Edge, “Get It Right”.
Dopo l’arpeggio dall’effetto thriller che agisce da preambolo, “Erase” suona come una jam session fra Eddie Van Halen e Axl Rose; subito dopo, “Time After Time” è il singolo potenzialmente più accattivante e vive anch’esso sulla dicotomia fra i fraseggi classicamente hard, incisivi ma eleganti di Lynch e l’attitudine di Colon, tendente al cosiddetto sleaze rock (una volta…) delle strade di L.A.
La componente metal emerge soprattutto in “How You Fall”, dove l’enfasi sembra orientata verso il modello dei Judas Priest, anche nell’assolo di chitarra che con la sua apertura eroica spezza il ritmo martellante del brano, oppure in “Fire Master”, che avvicina il mood più heavy degli Alice In Chains.
La formula versatile del gruppo, sempre presieduta dal carattere del duo Lynch/Colon, abbraccia anche soluzioni hard rock funky con reminiscenze rispettivamente di Aerosmith e Glenn Hughes in “Let It Go” e “The Synner”. Insieme alla contagiosa “Time After Time”, i miei brani favoriti sono anche i più elaborati: “Million Miles Away” è una ballata dall’estensione melodica “spaziale”, scandita impeccabilmente dagli arpeggi di Lynch, con Gabriel Colon più che mai infatuato dalla personificazione di Axl. Anche la sua struttura evoca le big ballads di “Use Your Illusion”, dove non avrebbe affatto sfigurato, grazie al tocco magico della chitarra solista, impegnata in un suggestivo crescendo. Infine il brano che intitola l’opera, “Babylon”, è un tour de force di otto minuti che si ricollega a certe ambientazioni tetre ed epiche del metal ottanta, suggerendo anche l’illustrazione di copertina, ispirata ai dipinti della “Torre di Babele” del pittore olandese Pieter Bruegel “Il Vecchio”: una scelta culturale senz’altro più raffinata rispetto al dragone di “Heaven Comes Down”.
Anche in questo caso, un George Lynch in grande spolvero suggella l’album con i suoi assolo flamboyant.
Sarà il preludio all’”ultimo giro” in tournée dei Lynch Mob? Il programma di concerti a partire dal gennaio 2024 sembra annunciarlo, ma considerando l’imprevedibilità del titolare, mai darlo per scontato. A mio opinabile giudizio, “Babylon” non vale il nuovo Dokken, ma resta un come-back di tutto rispetto.
Dokken 1985: all’epoca di “Under Lock And Key”
Ciao Beppe,
Bellissimo articolo! Sono nato l’anno di “Back for the attack” e sono un grande fan dei Dokken anche di quel Glam/Hair Metal in cui vennero incasellati. Tralasciando che di quella trilogia fatta con la Elektra il mio preferito é “Under Lock and Key” nel periodo Post Dokken io preferisco sto dalla parte di “Giorgio” e dei Lynch Mob perché Wicked Sensation mi piace di più dell’altrettanto ottimo “Up from the Ashes”.
Sicneramente fatico ad apprezzare tutto ciò che é arrivato da Dysfuntional sia perché non esiste praticamente più la line up originale sia perché trovo che la suddetta trilogia sia irripetibile sia a livello di ispirazione che di contesto (anche sociale) in se.
Volevo dirti che ho sempre molto apprezzato il termine “Class Metal” da te coniato e che secondo me ben rappresentava non soltanto i Dokken ma anche diversi gruppi di genere Glam Metal ma anche AOR e beh… invece ogni tanto mi capitare di parlare con qualcuno sia gente che ha vissuto quell’epoca in diretta sia altri venuti qualche anno dopo (come il sottoscritto) che parlano di quel modo di fare Metal e Hard Rock come di una cosa di cui vergognarsi e in certi con sincero disprezzo quando la cosa ha riguardo alcune “adesioni al genere” da parte di solisti o di gruppi che venivano dalla decade precedente.
Io ad esempio ritengo che un “The Ultimate Sin” di Ozzy così come “1987” dei Whitesnake siano stati due grandi album e che gente come i Kiss, Alice Cooper, Aerosmith e i Van Halen negli anni 80 da precursori del genere fossero legittimati a fare quella musica tirando fuori a loro volta alcuni dei loro dischi più belli di sempre. Non credi?
Sono sinceramente curioso all’idea di una serie Netflix sul periodo migliore della band visto che se ne occuperà qualcuno che ha già trattato la materia.
Tuttavia non riesco a capire se a tanti delle nuove generazioni interessi effettivamente questa musica e quell’epoca, secondo alcuni siccome io sono nato nel periodo in cui il Glam Metal andava forte, non avrei nemmeno dovuto avvicinarmi a quella roba!
E invece amo e colleziono CD e VInili di tanti generi sorti in quella decade e non posso proprio farci nulla jajaja.
Julio, probabilmente è la prima volta che commenti, grazie dell’attenzione. Negli anni ’80, anche le stars (come Ozzy o Coverdale) si erano allineati sullo stile imperante che si può definire “class metal”, ma è più noto, specie come fashion, con la definizione hair metal. E’ stato un decennio aureo per la musica hard’n’heavy (lo dimostrano ad esempio gli altri nomi storici che hai citato) e non solo, anche per tendenze molto differenti, si pensi alla new wave; poi si può criticare ciò che si vuole, specie di questi tempi, ma un certo tipo di hard rock melodico (alla Dokken, appunto) resiste anche per la fondamentale qualità delle canzoni. Se sei un fan di George Lynch, ascolta il nuovo disco dei suoi The End Machine (con Jeff Pilson), “The Quantum Phase”. Ciao!
Ciao Beppe,io ho sempre pensato che ci siano binomi artistici che sono inscindibili tra di loro,una commistione di talento scaturita dalla personalità e dalla sensibilità musicale che una volta scisse non è quasi mai eguagliabile o eguagliata…
Di casi nella musica non solo Rock c’è n’è a bizzeffe..MC Cartney/Lennon,Jagger/Richards,Page/Plant e via discorrendo inclusa la coppia Dokken/Lynch che insieme hanno scritto pagine importanti e meravigliose dell’Hard& Heavy… purtroppo personalmente penso che né uno né l’altro dopo il primo divorzio artistico abbiano prodotto o per lo meno mantenuto la stessa qualità compositiva e musicale,ma anche la reunion di metà anni 90 non è stata memorabile,anzi tutt’altro….Dysfunctional per me è stata una delle più cocenti delusioni musicali ed ho abbandonato l’interesse anche futuro per le vicende dei 2 musicisti limitandomi a sporadici ascolti che hanno confermato la mia tesi iniziale…. soprattutto ho constatato il declino di Don che ha continuato ad aggrapparsi ad un passato ormai remoto oltre che con i titoli anche con la voce…
Ciao Roberto, le tue osservazioni sono legittime, ma ogni tanto siamo tutti un pò troppo radicali con i nostri idoli. Ti faccio un esempio che mi riguarda: i miei lettori sanno che sono un accanito sostenitore di Emerson, Lake & Palmer; quando hanno inciso “Black Moon” per la loro reunion, non pretendevo che fosse all’altezza di “ELP”, “Brain Salad Surgery” o di altri album stellari dei ’70. Ma l’ho ascoltato ripetutamente con grande piacere ed assolutamente non avrei mai voluto privarmene! Certo, “Dysfunctional” é stato una delusione anche per me, infatti non lo riascolto, ma “Heaven…” se non proprio in Paradiso, mi ha risollevato nettamente il morale. Grazie dell’opinione.
Buongiorno Beppe,
ascolterò con curiosità, belle le recensioni.
Curiosità. cosa ne pensi del Dokken solista dell’89-90?
Buongiorno Luca. Ti riferisci certamente ad “Up From The Ashes” (1990); a mio avviso un buon disco, non un classico come i precedenti di gruppo, però realizzato con una formazione “all star” (Norum-White-Dee-Baltes) che accompagna Don in ottima forma vocale. Peccato che io non trovi più il CD…Grazie a te.
Classe. Questa è la parola giusta per definire Don Dokken e altri personaggi come lui che hanno fatto la storia di questo genere musicale.
Mi ricorda quei giocatori immensi che a fine carriera vanno a giocare in campionati piu’ facili, dove l’agonismo è minore. Ogni volta che toccano la palla però deliziano il pubblico dall’alto di una qualità estetica che non conosce età e che non ha bisogno dell’agonismo dei 20 anni. Questo è valido anche per lui, la voce è calata ma è usata con maestria e spostata su toni sicuri, ma quando la usa è capace di fare ancora la sua bella figura. La giovinezza è lontana, così gli eccessi e le discussioni, sicuramente un po’ di saggezza sarà entrata in lui e anche la voglia di essere protagonista a suo modo. Lo trovo ammirevole (e un po’ commovente). Una volta su un muro lessi: ” I vecchi leoni ruggiscono ancora”, credo sia adeguato.
I loro dischi sono qui in bella mostra davanti a me e quindi sei…”responsabile” della mia passione per loro visto che come molti li comperai sotto la tua spinta. Prenderò anche questo. Grazie Beppe.
Si Francesco…ammetto che è facile rispondere quando le opinioni sono prettamente condivise. Però anch’io trovo l’artista “commovente” e penso che “i vecchi leoni possano ancora ruggire” (non sempre e non tutti, sia ben chiaro, ci sono molti casi patetici). Infine, per me è motivo d’orgoglio aver contribuito a far apprezzare la musica rock di Dokken dalle nostre parti. Non è poco. Grazie a te e a chi mi riconosce qualche merito a distanza di decenni!
Ciao Beppe, ritengo che i tre album storici dei Dokken rappresentino una pietra miliare, per me insuperabile, nell’hard rock anni 80 di tipo “classico”. La capacità di coniugare riff metallici a linee vocali “melodiche” non è stata raggiunta così ad alto livello da nessun altro gruppo . A mio giudizio solo i Def Leppard sono a quel livello. Penso però che, nonostante come dici tu, ci siano buoni riff nell’ultimo disco, Don Dokken non è in più grado di esprimersi ai suoi livelli ormai da tanto tempo. Preferiremmo ricordarlo come era nel periodo d’oro.
Ciao Roberto, naturalmente ognuno ha le proprie posizioni in merito, le mie le hai già lette: Sui Def Leppard degli anni 80 ho scritto a suo tempo, elogiandoli come meritavano. Quelli attuali mi piacciono assai meno degli ultimi Dokken; in particolare l’album con l’orchestra è spesso imbarazzante. Grazie del parere.
Ciao Beppe, io non posso aggiungere niente perché il genere di queste band a me non piace. Però ho sempre apprezzato i tuoi articoli a maggior ragione quando parli di band e generi che non rientrano nelle mie corde, perché è facile esaltarsi quando uno legge delle band che ama, ma l abilità del critico musicale, secondo me , è proprio quello di interessare il lettore su storie di musicisti e generi musicali non amati. In breve, un buon articolo suscita curiosità a prescindere ed in questo, tu dai tempi che furono , sei sempre riuscito con i tuoi pezzi a creare interesse e pathos.
Un abbraccio
Ciao Giorgio, é molto gratificante ciò che mi dici; il mio scopo resta quello di valorizzare la musica che mi piace, ma anch’io ho spesso ammirato “critici” (se vogliamo così definirli) che scrivevano con bravura, non necessariamente di artisti/gruppi di mio spiccato gradimento. Ritengo che bisogna sempre impegnarsi per comunicare qualcosa di sentito ed interessante; quando leggo recensioni o articoli che sanno di routine, che dicono veramente ben poco, concludo che bisogna evitare modi d’esprimersi di basso profilo. Che poi si riesca o meno, lo giudica il lettore competente. Ti ringrazio davvero.
Assolutamente d’accordo sul fatto che Don sia nettamente vincitore su George. Certo, la voce non graffia più come un tempo, ma il songwriting dello scorbutico cantante resta il quid in più che ha sempre contraddistinto il gruppo nei golden years. “Spiaze” per i suoi acciacchi, ma musicalmente la classe resta intatta. Diciamo che, assieme, erano il connubio perfetto tra arte tecnica e compositiva: ma è come scoprire l’acqua calda.
Alessandro, fa piacere che continui a seguirmi e condividi quanto espresso nell’articolo, perché ti ritengo un vero esperto di hard’n’heavy anni 80 e l’hai sempre dimostrato scrivendo.
Ovviamente accolgo con piacere anche chi conosce la materia adeguatamente ma espone opinioni differenti, il che è parimenti costruttivo. Con la sua avanzata maturità, diciamo così, Don ha accolto serenamente le critiche rivolte ai limiti attuali delle sue corde vocali, che a mio avviso non mortificano l’intensità di “Heaven Comes Down”. Un atteggiamento saggio, da parte di un personaggio a suo tempo considerato presuntuoso. Difetto che invero, quando lo incontrai tanti anni fa per un’intervista in tournée con gli Accept, non colsi affatto. Molte grazie.
Buongiorno Beppe
Nessuno più di te potrebbe essere più indicato per scrivere un articolo come questo, visto che hai in sostanza coniato la definizione “class metal”, che vede nei Dokken i primi e maggiori esponenti.
Consultando il volume che citi, Nothin but a good Time (una risorsa irrinunciabile per tutti gli appassionati) si arguisce che i Dokken come band si sono formati quasi forzatamente, vista l’acredine mai sopita tra i due leader. Ciò non ha impedito alla band di produrre almeno tre grandi dischi, compreso uno dei massimi capolavori degli anni 80, ovviamente Under Lock and Key.
La separazione ha favorito la formazione dei Lynch Mob, di cui custodisco i primi due capi d’opera.
Vero che Lynch è generalmente invecchiato meglio rispetto a Don Dokken, sia fisicamente che come produzione musicale, anche se i dischi sopra citati restano inarrivabili.
Vorrei qui citare un bellissimo disco di cover a nome George Lynch , “Furious George” con una selezione abbastanza insolita e le parti vocali affidate a Kelly Keeling; una piccola gemma da riscoprire in un ambito spesso tedioso come quello dei cover album.
Sui dischi che recensisci onestamente non posso dire molto se non che ho ascoltato qualcosa del nuovo LM, e quello che ho sentito non mi è piaciuto per niente, sia per le canzoni che per la produzione sciatta. Il nuovo Dokken non lo ho proprio nemmeno incrociato, anche e soprattutto perché le pubblicazioni di Don Dokken sia soliste che a nome Dokken post separazione con Lynch, mi hanno lasciato sempre con l’amaro in bocca.
È un discorso ormai vecchio che rischia di diventare noioso dal momento che lo ho sollevato più volte sul Vostro blog, a proposito della differenza abissale tra le produzioni storiche e quelle odierne.
Per apprezzare queste vecchie glorie che vogliono riappropriarsi del passato è necessario mettere nella giusta prospettiva un disco che esce oggi con i capolavori che furono , ed è un passaggio che personalmente non sono in grado di fare.
Sono comunque lieto di leggere dalla tua penna una recensione così positiva del nuovo Dokken.
Ciao Lorenzo, grazie di ricordare il mio contributo alla causa per aver coniato un'”etichetta” di genere musicale; quello che mi piace rivendicare è di aver promosso a pieni voti i Dokken e l’hard rock a loro affine prima di altri. Venendo al nocciolo della questione, sostieni di non esser in grado di apprezzare oggi i lavori di artisti amati in passato, a causa del gap qualitativo fra le produzioni di ieri ed attuali. Ti dico il mio punto di vista, che non vuole confutare il tuo. A mia volta negli anni 90 ho preso le distanze da certe tendenze che amavo nel decennio precedente, perché non erano generalmente in grado di riproporre materiale allo stesso livello. Poi però ho voluto impegnarmi con maggior oggettività. Perché la stampa di maggior diffusione deve esaltare, per motivi opportunistici, ogni ritorno di grandi della storia del rock e noi magari siamo più critici nei confronti di gruppi che d’accordo, non hanno un passato altrettanto rilevante a livello planetario, ma che abbiamo profondamente amato? Ed è poi vero che certe superstar incartapecorite continuano a sfornare capolavori?Ho avvicinato il nuovo Dokken con cautela (idem Lynch Mob) ascoltandolo per intero su YouTube, e sono corso a comprarlo nell’unico negozio di dischi rimasto nella mia città. Ciò che scrivo è ciò che provo; il grande passato è una cosa, ma può emozionare anche il presente. Ancora, grazie.