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ALBUM & CDCanzoni del cuore

DIETRO ALLA MUSICA : tre storie noir

Le storie "nere" che il rock ci racconta sono talvolta difficili da interpretare ma stimolano la fantasia.

Spero che vi ricordiate l’introduzione all’approfondimento del testo di King’s Highway qualche settimana fa. La motivazione di cercare di analizzare il significato di certi testi e , spesso, l’enorme difficoltà di individuare un significato corretto a un testo non in lingua madre, per di più inserito dentro doppi sensi o immagini dietro cui l’autore in cerca di una metrica musicale nasconde la logica di una storia, nasce principalmente per l’amore e le emozioni che quella canzone è riuscita, negli anni, a suscitare e mantenere vive.

E’ dunque l’affetto per certi brani che ti spinge a inserirti all’interno del mondo delle parole che ne sono parte e che non è proprio detto che ti diventino del tutto chiare. Non vi dico la difficoltà di analizzare i testi di taluni, i giochi di parole, le assonanze in lingue non anglosassoni che sembrano stimolare altri, le metriche assemblate principalmente per cadenze o rime… fino alla resa di fronte a un qualcuno che un giorno decida di scrivere un testo, un libro, che diventi illuminante… e sperare che non sia un italiano a farlo. Gli italiani, interpretano secondo gusto e idee personali e decisamente cadono spesso lontano dall’albero. Non per colpa loro. In fondo sono nati a Pavia o Palermo, mica a New York o San Francisco.

Ho una personale passione per i racconti noir, quelli che immaginifici o reali, ti danno la possibilità di guardare per alcuni minuti dentro a fatti che lasciano un grande spazio alla tua personale creazione di quadri immaginari che rappresentano la tua immedesimazione nel racconto.

Così come ho sempre trovato abbastanza noiosi e risibili i testi “satanici”, al contrario mi sono sentito stimolato da quelli assolutamente ironici e fantasiosi “alla Gong” o “alla Zappa”, per intendersi. Tutto sommato molto più credibile pensare a teiere volanti guidate da gnomi con testa a pentolino che a capri dalle zampe bifide con ali di rapace.

Una storia che mi aveva incuriosito fin dalla sua lontana uscita era la “Then came the last days of may” dei Blue Oyster Cult, presente, a dimostrazione della elevata qualità delle composizioni dei cinque, nel loro disco di esordio, 1972. Mi stimolava tutto, al tempo, di quel gruppo : l’iconografia, il marketing (…quale frase più stimolante di “their songs are fantasy distillation of reality” ?), il simbolo, la varietà degli argomenti trattati. E tutto questo ben prima dell’arrivo di Michael Moorcock alla stesura dei testi. Ricordo anche una sfuggevole spiegazione ottenuta da un inferocito Bloom alla mia richiesta di approfondimento nella giornata sbagliata per lui, ma dato che la curiosità non veniva meno negli anni, data una traduzione quanto più pratica del testo, restava solo da inquadrare la vicenda.

La storia in sé era abbastanza lineare : tre ragazzi che, affittata una Ford, si dirigono verso il confine per un appuntamento che gli avrebbe portato denaro sufficiente per comprarsi una propria auto a testa. Fa caldo, poca acqua quindi riesce logico pensare che la direzione scelta sia uno Stato del sud, se non proprio al di fuori della loro America. Il riferimento alla fortuna di non aver incontrato un solo poliziotto in tutto il viaggio fa pensare ad un traffico a rischio e la fine di una trattativa andata a male e terminata con una strage lascia immaginare una compravendita di droga o di armi. Tutto logico ma privo di certezze.

Ricordo che per anni cercai un riscontro, fino a trovarlo, in una intervista a Donald Roeser parecchio tempo fa : la storia era realmente avvenuta; i tre erano proprio di Long Island, la provenienza del gruppo, e si erano illusi di fare denaro in un traffico di droga che avevano organizzato a Tucson, in Arizona ma erano caduti in trappola ed erano stati uccisi dal trafficante che si era tenuto droga e denaro. Dei tre ragazzi uno era sopravvissuto ed era riuscito a fare arrestare l’assassino. La nota inusuale era che la cosa era avvenuta in estate ma che Roeser, l’autore, aveva scelto di ambientarla in Maggio perché May suonava meglio di July nel testo…

They’re okay the last days of May, but I’ll be breathin’ dry air
I’m leaving soon, the others are already there (all there)
You wouldn’t be interested in coming along, instead of staying here?
It’s said the West is nice this time of year, that’s what they say.

Un’altra canzone che mi aveva sempre incuriosito era la Trial By Fire dei Jefferson Airplane. L’anno è il medesimo, il 1972, ma in quel momento Long John Silver è già il settimo disco del gruppo, a un passo dal trasformarsi in Starship e dal decadere per divergenze musicali. Gli Airplane, insieme a Quicksilver e Grateful Dead, erano la crema della “vera” San Francisco elettrica, un gruppo fortunato perché in grado di avere ben quattro cantanti diversi nella formazione che potevano far mutare le atmosfere solo cambiando la voce solista. Blues, rock, psichedelia, sperimentazione… non mancava niente. Non erano però loro autori di testi crudi o ambigui, non era né il momento storico né il genere di estrazione culturale, ma all’interno del testo c’erano una serie di immagini che facevano pensare a una vicenda non lontana dalla storia dei BOC.

Gonna move out on the highway, make this moment last
Til it closes with the future, blending with the past.
Rollin’ on and doin’ fine, what do you think I see?
That boney hand comes a beckonin’, saying buddy come go with me.

That engine just ain’t strong enough to get you round the turn
Lie on your back in the middle of a field, and watch your body burn.

Un viaggio in autostrada dunque, e piacevole perché desideri che duri, ma c’è una mano ossuta… la morte che ti aspetta ? Un motore non sufficientemente resistente per portarti al di là di una curva e tu che vedi il tuo corpo bruciare nel mezzo di un campo… diciamo che ce n’era a sufficienza per spingermi a studiare la storia. Ma qui, ad oggi, devo ammettere di non essere mai riuscito a trovare una analisi prossima a quello che il brano degli Airplane mi ha sempre stimolato a immaginare. Ovvio che Jorma Kaukonen, l’autore, non fosse un appassionato di storie nere, e che la California dell’inizio dei settanta ne avesse a sufficienza da raccontare senza andare a spulciare la cronaca… ma le interpretazioni che sono riuscito a trovare nel tempo hanno sempre scelto la strada della allegoria della vita rischiosa del rocker, intrisa di droghe e dubbi proprio di quell’epoca psichedelica, del desiderio di… “cambiare il mondo”. Non ho mai messo in dubbio le interpretazioni ma vi dirò che un’altra strofa mi ha sempre lasciato piacevolmente certo che vi fosse dell’altro dietro al simbolismo hippie di San Francisco…

Lookin’ at me with your eyes full of fire
Like you’d rather be seein’ me dead
Lying on the floor with a hole in my face
And a ten gauge shotgun at my head .

Di questo brano ne esiste una versione eccellente in un disco dal vivo, 30 secs over Winterland, che riporta nelle note di copertina che i Jefferson, in quel momento, fossero un gruppo allo sbando. Ascoltando il disco la prima considerazione che viene in mente è che… ce ne fossero tanti di gruppi così allo sbando !

Ma il testo più complesso e di difficile individuazione dei tre e in assoluto tra quelli che ho amato di David Bowie è Panic In Detroit, il racconto di un solitario in fuga che circola su un furgone diesel armato di una pistola tenuta nascosta, e che viene descritto come un tipo barbuto alla Che Guevara ma soprattutto come l’ultimo sopravvissuto di una gang locale, la National People’s Gang.

David Bowie, di cui ho letto molto e che quando l’ho avuto di fronte mi ha lasciato senza parole tanto era il carisma che emanava, e che ho sempre trovato un artista assolutamente eclettico, curioso, di grandissima cultura e dal gusto cangiante, mai stabilmente bloccato dalla sua stessa fama, è stato autore di testi molto spesso di non facile comprensione. Ricordo una intervista uscita subito dopo la sua morte, dove una serie di musicisti che non necessariamente avevano lavorato con lui, ne descrivevano la immensa difficoltà compositiva e di conseguenza la difficoltà dell’eseguirne o cantarne le parti. Difficoltà che parevano non emergere per i non tecnici nella linearità delle sue canzoni. Una bassista e chitarrista di eccellente qualità come Gail Ann Dorsey… altro che menella dei maneskin, suvvia… spiegava con dettagli molto tecnici i tempi del cantato a contrasto delle armoniche e che erano cose che solo lui e pochi altri potevano creare. Peccato che quell’intervista sia andata perduta.

He looked a lot like Che Guevara, drove a diesel van
Kept his gun in quiet seclusion, such a humble man
The only survivor of the National People’s Gang
Panic in Detroit, I asked for an autograph
He wanted to stay home, I wish someone would phone
Panic in Detroit

He laughed at accidental sirens that broke the evening gloom
The police had warned of repercussions
They followed none too soon
A trickle of strangers were all that were left alive
Panic in Detroit, I asked for an autograph
He wanted to stay home, I wish someone would phone
Panic in Detroit

Il personaggio di Bowie era stato ispirato da un racconto fattogli da Iggy Pop risalente al 1967, quando Detroit era una metropoli in mano ad uno dei ricorrenti disastri economici e a soggetti che sparavano nei quartieri bui e devastati. Una sera che Bowie aveva terminato un concerto proprio a Detroit, si fermò a comporre questa Panic in Detroit forse proprio colpito dalla città che aveva attraversato. Il suo protagonista è un disperato che fugge, non ha un nome e solo un volto, non ha uno scopo ma una sola speranza : qualcuno che gli telefoni per chiamarlo fuori dai guai che sta vivendo dentro una città nel panico. Molto, moltissimo, è lasciato alla immaginazione dell’ascoltatore.

Il brano venne inserito in Aladdin Sane con la chitarra di Mick Ronson che, si è scritto, abbia raggiunto in questo ed in alcuni altri pezzi uno stile ed una qualità che lo hanno reso degno di entrare nelle inutili classifiche dei classici cento… personalmente ho sempre trovato che la versione di Earl Slick, un solista che Bowie ha amato e voluto negli anni a suo fianco e che ha reso quel Live in Philadelphia del 1974 uno dei più spettacolari dischi dal vivo che ho amato in assoluto, una cosa che chi ama il primo Bowie, prima della trilogia berlinese, e le sue canzoni eseguite da un gruppo di una potenza tecnica ed esecutiva rara non può assolutamente permettersi di non avere in teca.

Ecco, non sono queste la summa delle canzoni “nere” che ho a memoria, ma solo tre episodi di quello che ciclicamente mi riaffiora alla memoria; per affetto verso la storie, certamente, ma anche delle grandi melodie che le compongono.

Cento altre ce ne sono e tante, prima o poi, proverò a suggerirvi, magari in attesa che qualcuno me ne suggerisca alcune a me.

Le mie righe per farvi venire la voglia di recuperare o assicurarvi l’ascolto di tre dischi molto differenti tra loro, ma testimoni di un’epoca le cui cose non possono essere più ascoltate dal vivo…per parafrasare un signore di Baltimora.

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