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C'era una volta HARD & HEAVYTimeless : i classici

Ancora SHOCK RELICS! I vecchi dischi-cult non si dimenticano

Di 1 Febbraio 202417 Commenti

In omaggio alla gratificante risposta che i nostri fedeli lettori hanno dato alla prima proposta di Shock Relics, rielaborate con opportuni aggiornamenti dall’archivio di Metal Shock anni ’80, mi fa piacere presentarne una seconda serie.
Il movente è sempre la passione e l’imperitura riconoscenza verso preziosi manufatti di arte rock, specchio di un’epoca creativa irripetibile, talvolta considerati a torto marginali. Erano tempi in cui non era una moda riscoprire i dischi del passato, infatti fra i sottotitoli della rubrica dedicata alle Reliquie in vinile, figuravano frasi del tipo “i dischi ricoperti dalla polvere che non dobbiamo dimenticare”.
Ricordate le ricerche spesso infruttuose fra gli scaffali dei negozi di supporti fonografici, in certi casi effettivamente polverosi? Oggi è una pratica ormai rara, perché quelle mete ambite sono in via di estinzione (fanno eccezione le fiere…), e poco importa se con un “clic” si possa recuperare sul web tutto o quasi, anche senza farsi vampirizzare da costi impropri, perché da decenni ormai proliferano ristampe di ogni genere. Allora il ritrovamento di dischi speciali, talvolta trascurati dagli stessi venditori perché semisconosciuti, aveva un gusto non facilmente replicabile. In assenza di internet, le fonti erano limitate; se si scovava qualche rarità, il motto era “prendere o lasciare”, non c’era YouTube che permetteva l’ascolto su smartphone dell’artista – o gruppo – misterioso; ci avventavamo come licantropi nel plenilunio sulla preda (il disco!), fidandosi delle fonti considerate autorevoli, pazienza se poi non rispondeva alle attese.
Andando oltre certe vecchie emozioni, anche stavolta ho “rivisitato” alcuni album, scelti con criterio non di importanza, ma di varietà stilistica; dunque, si inizia con gli Stooges, ormai generalmente considerati fra i capisaldi storici del rock, attraversando il prog/pomp-rock degli Starcastle, l’heavy rock underground dei Thundertrain, il proto-AOR di Desmond Child, per varcare le porte degli anni ’80 con i Girl, sul versante glam della NWOBHM.
E’ detto quanto basta, se può essere di vostro interesse.

THE STOOGES: “Fun House” (Elektra, 1970)

Liberamente tratto da Metal Shock n.21, aprile 1988

Gli Stooges, ovvero, gli anni ’60 finiscono nel delirio. I ragazzacci di Ann Arbor – Detroit – non erano certo degli intellettuali, ed il rock lo vivevano in maniera bruciante, dolorosa…Altro non pretendevano d’essere se non i più “malati” della città. Non avete mai visitato la “Casa del divertimento”? Accomodatevi al cospetto degli eroi maudits del rock’n’roll; distesi sul tappeto persiano ci sono i quattro Stooges: Iggy Pop dallo sguardo perverso ed i jeans strappati, Ron Asheton con la croce di Malta appesa al collo, suo fratello Scott esibisce una stella tatuata e Dave Alexander (cinque anni dopo morirà per overdose), incrocia le dita sul basso. I francesi, all’epoca i più accaniti estimatori degli Stooges, conieranno per loro una definizione esagerata: depraved-screamin’ metal music… e non fatevi distrarre dalle voci che li eleggevano “esclusivi” padrini del punk rock 1976; in comune c’era sicuramente il credo nel gesto oltraggioso – Iggy si feriva sul palco quando l’audience non era abbastanza attenta – ma il suono degli Stooges non era così povero. Nei momenti più feroci, generavano un’autentica bolgia di metallo incandescente, al di fuori degli schemi e di ogni ostentazione di circostanza; gli Stooges mettevano in musica i loro incubi, come in un’interminabile grido di sofferenza, di disagio esistenziale, e furono così reali nella dismisura da mettere seriamente in pericolo la loro incolumità fisica. Uscirono pressoché distrutti dalla loro esperienza, iniziata con un’esibizione nella notte di Halloween del ’67 e bruscamente interrotta proprio dopo “Fun House” ed il successivo tour americano: prostrati dall’abuso di droghe, con problemi di instabilità collettiva che li facevano diagnosticare pronti per l’ospedale psichiatrico della Motor City.
Ma se fossero stati comuni musicisti, gli Stooges non avrebbero mai realizzato quel suono febbrile e dissennato che ce li ha fatti amare per il loro verismo incontaminato.
L’ex-Velvet Underground John Cale ha prodotto il debut-album omonimo (1969), un capolavoro, ma solo parzialmente fedele ai torridi Stooges che avevano sconvolto l’America con le loro furenti provocazioni. Infatti Iggy & Co. scaricano il pur illustre personaggio e si gettano nel rogo di “Fun House”. In copertina Iggy sembra avvolto dalle fiamme, invece è solo una sovrapposizione fotografica con il suo stesso volto che emana intensi bagliori rossastri. Il fuoco divampa davvero, accecante, fra i solchi dell’album: in “Down On The Street” è racchiusa l’essenza stessa del rock urbano, nevrotico, partorito sulle strade… Una ritmica ossessiva su cui si dibatte la voce demenziale di Iggy e che scatena a flash l’istinto omicida di Ron Asheton, un chitarrista dal fenomenale impatto, troppo misconosciuto! “Loose” e soprattutto “T.V. Eye” spalancano abissi di perdizione: un fantasma malvagio sembra possederne i riffs serpeggianti e l’impressione ricavata è quella di una violenza intimamente vissuta, incontrollabile, che ridicolizza troppe prevedibili pose odierne. “Dirt” è un rock-blues acido e visionario, reminiscente dei Doors, probabilmente derivato dalle esperienze di Iggy con i musicisti neri di Chicago (1965-’67) ma definitivamente risolto alla maniera degli Stooges, nelle secche, martellanti battute del drumming di Scott Asheton e del basso di Dave Alexander, con l’insidiosa chitarra wah-wah di Ron sempre in agguato. Il secondo lato spinge il suono oltre la soglia del parossismo: il ritmo si fa convulso e schizoide a partire da “1970”, un saluto allucinante al nuovo decennio; l’esagitato sax di Steven Mackay cavalca i marosi del suono e la violenza degli Stooges assume i contorni di un’improvvisazione “free”, così come nel finale di “Fun House” (la title-track), ideale palestra d’esercitazione per la vena dissoluta ed isterica di Iggy Pop.

“L.A. Blues”? Il blues c’è, ma è fatto a pezzi, reso irriconoscibile dall’opera demolitrice della chitarra, che finisce il suo compito con il sibilare del feedback: gli Stooges hanno annientato il suono e loro stessi, idealmente rappresentati dalle urla agonizzanti di Iggy. Torneranno nel ’73 “ristrutturati” da David Bowie, come capi storici del movimento glam degenerato, di cui il terzo LP “Raw Power” è un brutale manifesto. Dopo lo split definitivo, Ron Asheton fonderà con Dennis Thompson degli MC 5 un’altra selvaggia formazione, New Order, confinata nell’underground come le successive, Destroy All Monsters e New Race.
Per l’Iguana invece parte nel ’77 con l’album “The Idiot”, realizzato in stretta collaborazione con il Duca Bianco, un’iconica carriera solista che prosegue imperterrita a tutt’oggi.

Un commento, oggi

La prima rassegna di Shock Relics rivisitata sul Blog, è stata inaugurata da un conclamato classico al di là di opinioni settoriali, “Vincebus Eruptum” dei Blue Cheer. Analogamente, in questa occasione ripartiamo da una pietra miliare del rock universalmente riconosciuta, il secondo album degli Stooges, “Fun House”. Insieme ai conterranei MC 5, gli Stooges di Iggy Pop sono stati la più grande garage band di tutti i tempi; ma non nell’ottica “Nuggets” della prima era lisergica americana (The Seeds, Count Five, The Shadows Of Knight etc.) cresciuta all’ombra del successo dei Doors, che influenzarono gli stessi Psychedelic Stooges (questo il nome originario). Il quartetto di Ann Arbor, irriverente & veggente, aveva lo sguardo proiettato verso il futuro, non a caso sono stati proclamati sia “heavy metal ante litteram”, sia padrini del punk. Trattando “Fun House” oltre 35 anni fa, ponevo l’accento sul come la critica di fede new wave, con la tipica arroganza di parte, si era appropriata degli Stooges in ottica sempre e solo punk. Ma per quanto realistica fosse la “discendenza”, va detto che Iggy ed i suoi non erano così minimali, sperimentavano spesso sonorità stranianti (basti citare la liturgia dark di “We Will Fall”, dall’opera prima). Inoltre, se il “patriarcato” punk degli Stooges era certo dal 1976 in poi, va aggiunto che molta stampa internazionale (specie il determinante mensile francese “Rock & Folk”) li qualificava antesignani dell’heavy metal, codificato come tale nella prima metà degli anni ’70 quando si parlava di Alice Cooper, New York Dolls e dei rispettivi esordi di Blue Oyster Cult ed Aerosmith. Credetemi, in quei tempi c’ero. Il ruolo pionieristico proto-metal era ben ribadito nell’album del rilancio, “Raw Power” (1973), scatenato dalla dirompente “Search And Destroy”. La verità è che gli Stooges sono stati un pilastro del rock trasversale, da non confinare in categorie preconcette. Anche per loro, una riunione in stile “anni 2000” (con due album di studio) poi vanificata dalle morti ravvicinate dei fratelli Asheton. L’unico superstite del quartetto originario resta Iggy (un altro Keith Richards, leggenda vivente inscalfibile o quasi ad ogni eccesso) giunto l’anno scorso al 19° album solista di studio, “Every Loser”, prodotto dall’ubiquo Andrew Watt.

STARCASTLE: “Citadel” (Epic,1977)

Liberamente tratto da Metal Shock n.18, marzo 1988

Anche il Midwest americano ha avuto la sua parte di gloria nelle fortune del rock U.S.A. nei Seventies, nonostante lo strapotere delle due “Coste” Est ed Ovest ed il bellicoso contingente degli Stati del Sud. Sovrani incontrastati del rock dell’Illinois sono stati i REO Speedwagon, ma altre bands della stessa regione ebbero qualche riscontro, specie gli Head East e gli Starcastle di cui ci occupiamo in questa sede.
Il pubblico del “Castello stellare” fu consistente in zona, se consideriamo che gli valse una sequenza di quattro album per la Epic, ma non dilagò mai a livello nazionale ed il supporto della stampa americana fu pressoché nullo. Solo Sounds in Inghilterra prese a cuore le sorti di questa sofisticata band, e non a caso, se sottolineiamo l’ispirazione britannica della sua musica. Ascoltando la produzione discografica, si può ben parlare di formazione “nata per sbaglio” al di là dell’Atlantico; ci sono affinità stilistiche con il contemporaneo pomp-rock yankee degli Styx, ma forse perché anche questo risentiva dell’influenza primaria degli Starcastle: il progressive tecnicistico e spettacolare degli Yes, sublimato in album indimenticabili come “Fragile” e “Close to the Edge”. Lo spirito di emulazione degli Starcastle rasenta persino il plagio: anche le loro copertine, osservate quella di “Citadel”, erano fortemente debitrici nei confronti del fantastico tratto di Roger Dean, illustratore al servizio degli Yes (e di tanti altri…). Inoltre gli Starcastle si erano costituiti nel ’72, proprio nel periodo di maggior risonanza di Chris Squire e prestigiosi compagni.
La fondazione è opera del chitarrista Stephen Hagler, del tastierista Herb Schildt e del bassista Gary Strater. Viene scelto il vocalist Terry Luttrell, ex-REO Speedwagon, e la line-up assume la completezza di un sestetto con il drummer Stephen Tassler ed il secondo chitarrista Matthew Stewart. Questo gruppo si rivelerà molto unito nel corso della sua carriera discografica, approdando al debut-album nel 75 con l’omonimo “Starcastle”. Lo stile è presto identificato: Luttrell conduce cori dalle purissime armonie vocali secondo i dettami di Jon Anderson, la sezione ritmica esegue breaks avventurosi e complessi, le chitarre danno una buona spinta al suono senza per questo eguagliare la straripante personalità di Steve Howe, e le tastiere completano la sfarzosa coreografia del suono. Gli Starcastle sono tecnicamente solidissimi e la loro musica cresce con “Fountains Of Light” fino a raggiungere l’apogeo con il terzo album del ’77, “Citadel”.
C’è un mago del suono a guidarli in sala di registrazione, quel Roy Thomas Baker, reso immortale dal successo dei Queen, e l’overture di “Shine on Brightly” è un vero Paradiso per pomp/prog-rockers: il rullare dei tamburi introduce magniloquenti, spaziose sonorità di chitarre e tastiere dal feeling mitologico, e l’impatto delle melodie vocali non è da meno.
Quando Herb Schildt si esibisce all’organo Hammond “tradisce” Rick Wakeman a favore del più dinamico Keith Emerson, qui come in apertura della seconda facciata, “Evening Wind”, dove il suo fraseggio si fa particolarmente insistente.

“Shadows Of Song” è una ballata pomposa ed aperta ad improvvisazioni strumentali, sempre devota ai canoni delle Yessongs, ma le luci ed i colori di “Citadel” restano vividi ed accesi, il suono è fresco e pulsante, davvero non si sfiora la noia che molestò anche i maestri inglesi del rock tecnicistico in età senile.
Così il disco incorona un altro dei suoi vertici in “Wings Of White”, dove il suono barocco dischiude la mente ad immagini fantasiose, con una minuzia di particolari che i fans dei primi Marillion e Pallas non possono certo ignorare. Ma non era quella l’epoca del Rinascimento Progressive, così Starcastle si dissolveva come in una mitica visione nel ’79, dopo l’LP “Real To Reel”. Oggi meritano di essere menzionati per il contributo che diedero alla perseveranza di tipologie musicali molto osteggiate nella seconda metà dei Seventies.

Un commento, oggi

I meandri della memoria sono infiniti, e sapete come mi sono tornati in mente gli Starcastle? Osservando l’illustrazione del video di uno dei rari brani attuali che mi ha realmente affascinato, “Citadel” dei canadesi Crown Lands; sia l’immagine, sia il titolo, ricordano moltissimo le oniriche fortezze delle copertine del primo “Starcastle” e di “Citadel”, che reca persino lo stesso nome…Se aggiungiamo che sono reduce dalla rivisitazione dei Magnum, paragonati a loro volta agli Yes, sebbene in termini distanti dal gruppo di Champaign (Illinois) che ne rasentava il plagio, ecco sorgere spontanea la domanda: perché non rievocare un pregevole gruppo all’incrocio fra progressive e pomp-rock americano? La carriera discografica più significativa degli Starcastle è concentrata nella seconda metà degli anni ’70, ma il sestetto ha proseguito anche nel decennio successivo, nonostante le defezioni di Luttrell e del tastierista Herb Schildt dopo il licenziamento subito dalla Epic, che pretendeva un repertorio più commerciale. Prima dello split nell’87, figurava nei ranghi anche il chitarrista Mark McGhee, che subito dopo avrebbe fatto irruzione nei potenti Vicious Rumours di “Digital Dictator”! La storia degli Starcastle, come spesso accade, non è finita qui. Dopo alcune avventure da solisti dei componenti, anche loro si sono riproposti nel Terzo Millennio, con una di quelle rituali riunioni che in genere non mi convincono. Il nuovo album di studio, “Song Of Times” (2007) è stato generosamente accolto dai soliti giapponesi e più recentemente è uscita una collezione di inediti (“Alchemy”). Ma il consiglio è di ricercare prioritariamente le lodevoli ristampe Rock Candy della discografia originale.

THUNDERTRAIN: “Teenage Suicide” (Jelly, 1977)

Liberamente tratto da Metal Shock n.5/6, agosto/settembre 1987

Thundertrain erano il gruppo più heavy del Rat, il mitico locale di Boston che fra il ’76 e il ’77 ospitò i nomi più in vista dell’underground rock del Massachusetts. Se gli altri artisti di valore, Real Kids, Willie Alexander & Boom Boom Band, DMZ, rivolgevano prevalentemente la loro ispirazione ai Sixties e al garage rock, i Thundertrain rappresentavano una vera esperienza killer, ed i loro migliori episodi, come “Cheater” e “Frustration” vomitavano colossale rock metallico urbano sulla scia degli Aerosmith più esplosivi. E non è un caso che dopo la fine del gruppo, l’oltraggioso frontman Mach Bell risorgerà a nuova vita nell’atto finale del “Project” di Joe Perry, “Once A Rocker, Always A Rocker”. I Thundertrain erano splendidamente inseriti nella tradizione del rock duro americano, ed alcune loro tracce riecheggiavano i Black Oak Arkansas (“Love The Way” e “Hot For The Teacher”, registrate dal vivo al Rat con il contributo di Willie “Loco” Alexander al piano) poiché Mach fu uno dei primi emuli di Jim Dandy, il prototipo del cantante-stallone che con la sua arroganza maschile molto influenzò anche David Lee Roth. Prima di questo esordio a 33 giri, “Teenage Suicide”, i Thundertrain avevano inciso un paio di singoli e figuravano con due brani (“I Gotta Rock” e l’inedita ‘I’m so Excited”) sul testamento punk della Boston-area, la doppia compilation “Live At The Rat”.
Nella straripante “I Gotta Rock” sembra davvero di ascoltare il triviale Jim Dandy di “Hot & Nasty”, ma certamente più personale e significante è “Frustration”, l’apice del disco con il suo mostruoso riff che fonde Kiss con Aerosmith in una suprema lega metallica (il videoclip che vi segnalo non ha un suono all’altezza, ma testimonia l’energia Live del gruppo-n.d.a.). Veramente brutale anche l’aggressione di “Hell Tonite”, mentre “Cheater” è il brano più drammatico, senza ombra di music for fun.

I Thundertrain sapevano alternare benissimo la tensione convulsa dell’hard rock metropolitano alla vena più giovanile e sessuale, illustrata dalla foto del singolo “Hot For Teacher”: i cinque rockers posavano arrapati scrutando le gambe dell’insegnante in questione… “I vecchi amici dicono che non possiamo fare rock’n’roll! Non riusciamo ad avere nessuna educazione, e la scena della città è troppo datata! Ma non c’importa, troveremo un modo… Per scalzare i loro rockers, e far esplodere questa città!”. Alla loro maniera, i Thundertrain avvicinarono anche l’insolenza verbale e l’impeto con cui i Twisted Sister si presentarono sulla scena di New York, con ben maggior fortuna. Loro non ce l’hanno fatta, ma sono caduti con onore sul campo, senza tradire i propri bellicosi propositi.

Un commento, oggi

Thundertrain mi catapultano in un passato che ricordo con nostalgia, quando l’heavy rock americano dei Seventies calamitava la mia attenzione. Anche la loro giovanile “professione di fede” di cui sopra, riportata sul retro-copertina, la sfida lanciata agli old rockers della loro città, riporta in mente i tempi in cui la nostra musica rock era florida, la scena ribollente di vitale energia, niente a che fare con la depressione del XXI Secolo. Paradossalmente, il quintetto di Natick (non distante da Boston, dove si è imposto) è forse più conosciuto perché i Van Halen gli hanno “espropriato” il concetto di “Hot For Teacher” – comunque il singolo meno fortunato di “1984” – che per meriti propri. I due brani sono diversamente accattivanti, ma il famoso videoclip dei VH sfrutta un po’ l’artwork del precedente 45 giri dei Thundertrain, con in primo piano la professoressa in minigonna. Questo sosteneva il cantante “Cowboy” Mark Bell, che adottò lo pseudonimo Mach per non essere confuso con il drummer dei Dust (e futuro Marky Ramone!); fu anche l’unico a darsi da fare dopo lo scioglimento, dapprima con Joe Perry, poi provandoci con un paio di gruppi, fra cui Last Man Standing nel ’96, prima di rilanciare senza troppa fortuna i Thundertrain. Sorprende che Mach sia stato anche insegnante, scrivendo le sue memorie autobiografiche nel libro “Rock Survival”! “Teenage Suicide” passa alla storia anche fra i primi LP indipendenti in America (su Jelly Records). Fu riedito su CD dalla Gulcher solo nel 2002; la stessa etichetta pubblicò due anni dopo il live “Hell Tonite!”. Sorprendentemente, l’unico evergreen di studio dei bostoniani non è finito nel silenzio in Italia, essendo oggetto di ristampa su Hablalabel nel ’89 e più recentemente su Rockin’ Bones. Se amate l’essenza più autentica del rock’n’roll yankee dei ’70, non potete ignorare i Thundertrain!

DESMOND CHILD & ROUGE: “Runners In The Night” (Capitol, 1979)

Liberamente tratto da Metal Shock n.10, novembre 1987

Difficile a credersi, eppure questa singolare formazione di New York, guidata dal compositore extraordinaire Desmond Child, si sciolse per mancanza di successo: il biondo Desmond era un “hitmaker” per vocazione e l’ha dimostrato dando la scossa al repertorio delle superstar che hanno fatto ricorso alle sue inusitate doti di scrittura musicale. Limitandomi ad alcuni episodi eclatanti, ricordo che Desmond Child è stato coautore di “I Was Made For Loving You” e “Uh! All Night” dei Kiss, “You Give Love A Bad Name” e “Livin’ On A Prayer”, fra i top-singles di Bon Jovi, oltre all’irresistibile “These Times Are Hard For Lovers”, di John Waite e persino di tre brani dell’acclamato “Permanent Vacation” degli Aerosmith, fra cui “Dude” e “Angel”, entrambi in odore di classifiche. Desmond Child & Rouge figuravano anche nel cast della colonna sonora del famoso film sulle gangs di New York, “I Guerrieri Della Notte” (The Warriors, 1979) – accanto a Joe Walsh e Genya Ravan – con la canzone “Last Of An Ancient Breed”.
La particolarità della formazione consisteva nella presenza di ben quattro vocalist, Desmond stesso e le tre “Rouge”, ossia Maria Vidal, Myriam Valle e Diana Grasselli, estremamente sofisticate nelle soluzioni corali. Il ruolo della strumentazione era di puro, ma competente e calibrato contorno a questo rock melodico essenzialmente vocale, una sorta di easy listening giovanile, con qualche puntata verso i riffs dell’hard rock, come in “The Truth Comes Out”, brano selezionato dalla Music for Nations per la doppia compilation del rock americano misconosciuto, “Striktly For Konnoisseurs”. “The Truth…”, davvero un caso di mancato hit nonostante tutti gli ingredienti per risultare accattivante, è anche il brano che inaugura il secondo LP, “Runners In The Night”, più rockeggiante dell’omonimo esordio del ’78 e comunque testamento finale di questa formazione di ex-studenti universitari, fondata a New York nel ’75. Se l’illustre palmares di Desmond vi ha incuriosito, provate a cercare l’LP nel settore “offerte speciali” del vostro importatore favorito (Beh, suggerimento d’altri tempi! – n.d.a.). Include alcune gemme di rock melodico decisamente personale, come l’elegantissima “My Heart’s On Fire”, irresistibile quando la voce di Diana Grasselli si diffonde in un’eterea atmosfera pianistica, per riacquistare vigore unendosi al coro delle due partners. Anche “The Night Was Not”, che recupera il clima languidamente crepuscolare della foto di copertina, dove le luci della città si accendono su Desmond Child & Rouge, e “Goodbye Baby”, confermano un accostamento a gruppi presieduti da voci femminili, come Heart e Toronto.

Sulle romantiche note del piano di “Runners In the Night” è però la volta di Desmond a condurre la ballad con il suo timbro caldo e armonioso: la formazione di impeccabili musicisti di studio che suona nel disco è discreta, senza invadenze, ma non fallisce un solo intervento sotto il profilo del buon gusto: esemplare, in quest’ottica. “Tumble In The Night” è un altro efficace numero A.O.R. dalle basi hard, ancora cantato da Desmond; la notte della metropoli, non certo quella pericolosa delle backstreets, bensì nella sua accezione sensuale e intimistica, “dedicata al potere dell’amore”, è davvero il tema conduttore di questo raffinato cerchio di vinile. Dispiace la perdita delle Rouge, che all’epoca avevano manifestato il loro talento anche negli album di Paul Stanley (Kiss) e Genya Ravan, madrina punk della Grande Mela, ma rinfrancato dal successo dei suoi assistiti, Desmond avrebbe potuto rintracciarle per un memorabile come-back.

Un commento, oggi

Dopo l’iniziale débacle Di Desmond Child & Rouge, Maria Vidal portava al successo la title-track del film “Body Rock” (1985) e due anni dopo si imponeva con il primo album omonimo da solista (A&M), al quale collaborava anche Desmond, allora suo compagno.
La coppia si ripresentava nel duetto invero edulcorato di “Obsession”, tratta dall’unico album solo di Desmond Child, il ragguardevole “Discipline” (Elektra) del 1991, quando ormai la grande stagione del rock modellato sull’airplay volgeva al termine. “Discipline” resta un solitario di prestigio, con Richie Sambora e Diane Warren che contribuiscono alla stesura dei brani, le stesse Rouge che si riuniscono ai cori ed una serie di celebri ospiti, basti citare Lukather, Joan Jett e Vivian Campbell.
La fama dell’artista in qualità di compositore non si è certo arenata; la sua partnership si è consolidata soprattutto con Bon Jovi, Aerosmith, Paul Stanley (Kiss), allargando il proprio raggio d’azione nella musica leggera (Ricky Martin, Robbie Williams, Katy Perry etc.) ma anche con luminari dell’hard’n’heavy: Scorpions, episodicamente persino Dream Theater. Nel 2006, Child è stato anche produttore dell’ultimo capitolo della Trilogia di “Bat Out Of Hell” di Meatloaf, “The Monster Is Loose”.
Con un curriculum enorme, ben più esteso di questa sintetica rassegna, non meraviglia che Desmond Child nel 2008 sia stato accolto nella Songwriter Hall Of Fame. Oggi l’autore nato in Florida è irriconoscibile; niente più riccioli biondi alla Robert Plant, ma capelli cortissimi e barba. Quello che resta assolutamente identificabile è il marchio di fabbrica delle sue canzoni…Bon Jovi si stizzì quando ai tempi del boom anni ’80, gli chiesi se riconosceva a Desmond parte di merito dei suoi successi! Ma davvero quei refrain, ideali da cantare in coro, orecchiabili ma muniti di indubbia carica rock, facevano la differenza. Tant’è che anche il cantante del New Jersey, pluri-decorato al platino, ha continuato imperterrito a richiedergli saggi di malizia compositiva.

GIRL: “Sheer Greed” (Jet, 1980)

Liberamente tratto da Metal Shock n.19, marzo 1988

I Girl erano troppo “diversi”…Non fraintendete, non alludo all’immagine ambigua, non solo a quella; certo è che giunsero in evidente anticipo.
I tempi non erano maturi per i nuovi Glam-Godz inglesi, genuinamente sulla scia dei satiri perversi della prima ora, i Silverhead di Michael DesBarres. Nel 1980 l’heavy metal recuperava il suo carattere mitologico-medievale, e davvero il pubblico che voleva la riscossa delle armi e degli onori della più belligerante forma di musica rock – specie nel Vecchio Continente – non nutriva alcun interesse per lineamenti androgini sottolineati dal mascara, né per una tipologia musicale che almeno a tratti trascurava l’aggressione a vantaggio di altri linguaggi espressivi; nel caso di Girl, ad esempio lo pseudo-cabaret di “Strawberries”, oppure i fraseggi reggatti di bianco in “Passing Clouds”. Inoltre i “signorini” erano anche dei privilegiati: nessuna gavetta per indies a tiratura limitata, escono nel ’79 e subito attraggono un’etichetta importante, la Jet che stava rilanciando prepotentemente Ozzy, disposta a scritturarli. Giungono in breve al debut-album, “Sheer Greed” ed a produrli non è un mestierante qualsiasi, ma Chris Tsangarides: i risultati si sentono, eccome. Il suono è di quelli che sfidano l’usura del tempo, inoltre nel gruppo ci sono due potenziali stars come Phil Collen, che sarà il più celere a realizzarsi partecipando al festino milionario di “Pyromania” dei Def Leppard ed il disinibito frontman Phil Lewis, che alla fine ha scovato in America il suo veicolo vincente, L.A. Guns. L’hard rock costellato di boom metallici dei Girl è della specie più fine. Il quintetto inglese è estremamente versatile ed oltre agli episodi già citati svaria nel viscerale funky hard di “Take Me Dancing”, dal torrido feeling Aerosmith (Ehi Phil…l’avevi ascoltato Steven Tyler, vero?) per tornare al puro glam-rock viziosetto di “My Number”, che fu anche il loro primo singolo. La cover version di rito è un autentico shökker: trattasi della rilettura di un classico dei Kiss, “Do You Love Me”, che restituisce quella sorta di ipnotica trance teatrale propria dell’album “Destroyer”. Gli episodi più aggressivi, che accoppiano glam-hysteria e metallico fuoco-di-fila, sono vere eruzioni di energia: le indimenticabili “Hollywood Tease” (rilanciata sul debut-album dagli stessi L.A. Guns) e “Doctor Doctor” (non il classico degli UFO, comunque degno di tanto nome) ci ricordano la carica dirompente dei Girl.

Nonostante ciò “Sheer Greed” è un tonfo commerciale rispetto alle previsioni, anche perché l’immagine “truccata” del gruppo è semplicemente adolescenziale, non ha il potente impatto che permetterà ai Mötley Crüe, poco più di un anno dopo, di stordire la fantasia degli headbangers. I Girl si rifugiano in Giappone, il solo paese dove riscuotono un plebiscito di consensi, ed il secondo album, “Wasted Youth”, tarda fino all’82: un LP da promuovere, ma non a pieni voti come l’opera prima. Il primo colpo ai destini della band lo dà Phil Collen, che sceglie di rimpiazzare Pete Willis nei Def Leppard, ed i Girl finiscono di morte lenta, senza annunci ufficiali dello scioglimento. La loro riunione è senz’altro fra le più improbabili del sistema solare, ma non dimenticate le doti di questi incompresi.

Un commento, oggi

Un classico esempio di fulminea ascesa ed altrettanto rapida caduta, i londinesi Girl sono apparsi sulla scena nel 1979, e leggenda vuole che la Jet li abbia scritturati senza esitazioni – sulla base di un videoclip autoprodotto artigianalmente – convinta di essersi assicurata gli eredi di Kiss, Sweet e New York Dolls. Nel gennaio 1980 già si presentavano nell’influente Friday Rock Show di Tommy Vance, ed i media inglesi erano concordi nel dipingerli come il “futuro del R&R”. Un fitto programma di concerti culminava nell’apparizione al Festival di Reading 1980, e l’album di debutto “Sheer Greed” avvicinava i Top 30 inglesi. Senza alcun dubbio, i Girl sono stati i pionieri del decennio che avrebbe sguinzagliato il glam metal (o se preferite hair metal), anticipando in popolarità tutti i gruppi della NWOBHM di tale tendenza – Wrathchild, Rox, Silverwing, Marionette – ma anche l’esplosione americana di Mötley Crüe, Ratt, Twisted Sister, etc.  Infatuato dallo stile di vita del jet set, il cantante Phil Lewis mostrò la strada ai membri dei Mötley, accompagnandosi all’avvenente attrice svedese Britt Ekland, già compagna di Rod Stewart. Ma i Girl caddero presto in disgrazia, il pubblico heavy metal, schierato con divise in denim & leather, voltò loro le spalle; solo in Giappone il meno riuscito secondo album, “Wasted Youth” ne confermò la popolarità. “Sheer Greed” resta un classico del suo genere, ma gli artefici hanno vissuto il destino spesso ingrato dei precursori. Prima di approdare agli L.A. Guns, Lewis ha frequentato una quantità di bands, dai London Cowboys all’ex-Gillan, Bernie Tormé. I fratelli Jerry e Simon Laffy hanno tentato il rilancio sul recettivo mercato nipponico, battezzando il nuovo gruppo Sheer Greed (con Lewis e Collen quali guest star). Collen e Simon Laffy hanno allestito nel 2004 il pubblicizzato trio Man Raze, con il batterista dei Sex Pistols, Paul Cook. Per tornare alla conclusione dello scritto originale, la riunione dei Girl è stata spesso discussa, ma mai realizzata.

17 Commenti

  • Ale B. ha detto:

    Buonasera signor Riva, sempre belli e interessanti gli articoli, complimenti. Ho scoperto non da molto il blog e me ne rallegro. Anch’io sono un ex-lettore soprattutto di Metal Shock (periodo 1992-1998, o giù di lì), ogni tanto acquistavo anche Flash e altre riviste. La rubrica delle recensioni me la “mangiavo”, e anche le sezioni sulle perle del passato erano molto gradite (credo di aver scoperto lì Super Angel, Trigger e Trillion, e altri che ora non ricordo). I miei gusti di allora erano hair metal e rock classico anni ’70, ma anche tanto grunge, punk/hardcore, rock alternativo, gothic metal e metallo alternativo (d’altronde ero
    adolescente all’epoca), mentre sul finire degli anni ’90 mi avvicinai allo stoner/doom. Anni fa stupidamente gettai via molte delle riviste (conservandone solo poche), e ora rimpiango questo insano gesto! Il mio sogno sarebbe un bel libro, perché no magari anche solo digitale, che raccolga tutte le recensioni di Metal Shock e/o Flash, soprattutto il periodo succitato. Domanda… qualche recensione di album nuovi o più recenti è ipotizzabile? Qualcosa di buono, anche a livello underground, c’è ancora in giro. Saluti!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Ale, grazie dell’educato “Signor Riva” ma qui si usa dare del tu fra noi del Blog e i lettori. Per quanto riguarda le tue preferenze negli anni 90, in quel periodo tornai a scrivere su Rockerilla e mi occupavo prevalentemente di tutti i generi che hai citato (eccetto l’hardcore punk e affini). Non è nelle nostre facoltà ristampare le recensioni di Metal Shock etc. se farò qualcosa di personale in quest’ottica lo renderò noto. Sicuramente ci sono buoni gruppi moderni, se guardi in arretrato nel blog ne troverai. Però possiamo dedicarci molto part-time, e la nostra “presunzione” è realizzare qualcosa di diverso (con le debite eccezioni) di quello che i lettori possono trovare ovunque. Spero di essere stato chiaro e quando ti pare, commenta liberamente. Grazie ancora.

  • Fabio Zampolini ha detto:

    Ciao Beppe, ricordo perfettamente le tue recensioni su Shock Relics, ho tutti i vinili qui proposti e quasi tutti comprati all’epoca grazie alle tue recensioni, tranne i famosissimi Stooges. Gli altri titoli sono da veri intenditori ed ho una particolare simpatia per Starcastle ( ho tutta la discografia dei 4 album ed è tutta di gran pregio ) e Desmond Child, quest’ultimo possiede delle hook-lines ( come dicevi tu ai bei tempi ) da infarto e per me molto migliori di alcune sue hit diventate famosissime…..i Guerrieri della notte uno dei miei film preferiti! Un caloroso saluto e grazie per l’articolo come al solito magistrale

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Fabio, è importante per me che i lettori di lunga data ricordino quei dischi spesso dimenticati e che mi suscitavano grandi emozioni! Certo non sono i Beatles, gli Stones, Led Zeppelin, ma aggiungere qualcosa sui colossi della storia rock&pop lo trovo meno “sentito” da parte mia, se ne parla ovunque…Ovviamente chi ritiene di dire la sua a riguardo con competenza fa bene. Io mi diverto di più se un pò di esperti mi approvano gli Starcastle o il primo Desmond Child. Sarò eccentrico… Grazie!

  • Giuseppe ha detto:

    grande Beppe, con questa riproposizione “attualizzata” delle tue mitiche Shock Relics mi rendi davvero felice, specialmente in questa occasione dove hai “rispolverato” quell’autentica gemma underground dell’album dei Thundertrain!
    Non ho molto da dire se non di continuare così … magari potrebbe diventare una vera e propria rubrica del blog, mensile per esempio, coinvolgendo anche dischi non trattati all’epoca … che ne dici? chiedo troppo?

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Giuseppe. Lo schema del Blog è quello che conoscete, ma la mia intenzione, finché c’è una bella risposta da parte vostra, è di riproporre le Shock Relics “rivisitate” perché continuo ad amare quei dischi. E nella fattispecie, mi fa davvero piacere il tuo omaggio ai Thundertrain…Good Times! Ci piacerebbe scrivere di più, purtroppo il tempo è tiranno, e a mio avviso, meglio alcune cose fatte bene che tante approssimative. Grazie davvero.

  • LucaTex ha detto:

    Ciao Beppe! Ottima descrizione di dischi che per noi appassionati non hanno subito la minima incuria del tempo ma anzi risvegliano ancora passione mai sopita. Noto con gran apprezzamento la forte eterogeneità delle scelte che da sempre ti contraddistingue. Dovremmo ricordarci più spesso (parlo soprattutto a titolo personale) di non soffermarci nella confort zone musicale ma di osare sempre con i nostri ascolti 😉 Un saluto! L.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Luca Tex, ho avuto modo di apprezzare a mia volta la versatilità delle proposte del tuo programma radiofonico; ovviamente nel proprio ambito di competenza è a mio avviso fondamentale spaziare. Chi legge credo approvi questa tendenza; si potrebbe fare di più, ma il tempo a disposizione è quello che è…Speriamo comunque nel consenso dei lettori competenti di cui un po’ ci vantiamo! Grazie della partecipazione.

  • Fulvio ha detto:

    Ciao Beppe,
    Sempre molto interessanti questi articoli che risvegliano emozioni passate ma mai dimenticate e grande idea quella dell’upgrade con gli odierni pensieri.
    In questo lotto di gruppi la mia preferenza va agli Starcastle, i più affini al genere musicale con maggior tenuta nel tempo nell’ambito dei miei gusti personali.
    Ho gradito anche il richiamo ai “Crown Lands”, lavoro che ho apprezzato tantissimo.
    Curiosamente oltre a “Citadel” anche “Lady of the Lake” è il titolo della opening track dell’esordio degli “Starcastle” ed il titolo del penultimo brano di “Fearless” dei “Crown Lands”….coincidenze o sorta di “piccoli tributi”?
    Grazie,
    Un saluto

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Fulvio, fa piacere che il “rimissaggio” delle Relics con relativi aggiornamenti sia parso una buona idea. Non mi aspettavo segnali di apprezzamento verso gli Starcastle, che pensavo fra i più dimenticati. È significativo che certi gruppi da culto soggiornino nelle memorie degli appassionati di lunga data. Lo dimostra anche l’ulteriore richiamo ai Crown Lands da te indicato. Tante grazie.

  • angius francesco ha detto:

    Ciao Beppe , l’unico disco che non posseggo è quello di Desmond Child.
    Gli altri “me li avevi fatti comperare ” all’epoca.
    Lo dico in tono scherzoso ma ho sempre seguito le tue indicazioni e sono rimasto fin da ragazzo molto soddisfatto, forse perchè, azzardo, abbiamo gusti simili.
    Scusami l’ardire, ma questo serve per farti capire quanti come me ti hanno seguito prontamente e quanta gente hai cresciuto musicalmente.
    Credo sia una bella soddisfazione per la…vecchiaia !!!
    Bando agli scherzi sono dischi meravigliosi , non hanno perso nulla e a me fanno letteralmente impazzire gli Starcastle, autori di una musica veramente affascinante che mescola prog, hard, classica e pomp!
    Meritavano grande attenzione, ma la loro proposta era troppo deviante e lo rimane tutt’ora.
    A me mi, come si diceva da piccoli, piacciono tantissimo !
    Io attendo un articolo o una serie sul southern rock (te lo ho già chiesto, ma mi permetto di insistere).
    Sei un grande !!!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Francesco, un tocco di humour come il tuo non guasta mai. Chiaro, se qualcuno mi ha seguito nei gusti musicali, ed ho la presunzione (!) di immaginare che ce ne siano, mi fa piacere; infatti mi sono dedicato alla scrittura non perché i lettori rinunciassero dopo poche righe! Già, la “vecchiaia” non è mica tanto distante per me, ma conta anche lo spirito, e la musica può aiutare. Complimenti per conoscere ed apprezzare gli Starcastle, non è da tutti. Sul southern, devo trovare l’idea giusta, funziona così per me. Non sono di quelli che pur di scrivere, sono disposti a tutto. Grazie della stima.

  • Fabio Zavatarelli ha detto:

    Ciao Beppe,
    grazie ancora una volta per avere riproposto gli Shock Relics.
    Possiedo ancora il numero in cui facesti quella mitica recensione sugli Stooges. L’ho letta e riletta decine di volte perchè sapeva esattamente cogliere la mia passione per quel fenomenale disco che è Fun House e esprimeva valutazioni che erano esattamente le mie.
    Se ti ricordi, ho espresso anche qua più volte l’abuso della etichetta punk fatto dalla critica musicale affibiando la stessa a gruppi che poco avevano di Punk o proprio non c’entravano affatto (vorrei ricordare la recente abnorme ed abietta conclusione di alcuni “competenti” recensori del 21° secolo che si trovano in Rete e per cui Communication Breakdown dei Led Zeppelin era Punk … non ci sono parole!!!), e con piacere le tue parole con cui hai messo la tua postilla 2024 esprimono ancora una volta la perfetta delimitazione di quella fenomenale ed immortale band che furono gli Stooges. In particolare quella dei primi due album fu effettivamente la Garage Band defintiva ma con ponti musicali Hard o Heavy evidenti … ed un’attitudine che, sicuramente fece da modello per le nuove generazioni, quelle dei fratelli minori che non si riconoscevano nella Woodstock Generation.
    Solo questo, grazie ancora … per i ricordi ….. per il mantenere accesa la fiamma di un Rock che non merita di sparire …. con la speranza che questa tua recensione possa essere diffusa da tutti con tutti i mezzi …. per riequilibrare …….

    Continua così …. grazie ancora.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Fabio, sei ben identificato e ricordo i tuoi interventi, compreso quello sulla critica che fa “di tutto un punk” (!). E bada bene che io non ho niente contro il punk rock (alcuni gruppi meno chiacchierati dei soliti li ho apprezzati veramente), se non la sua smodata pubblicizzazione. Mi fa piacere che tu condivida il mio pensiero sugli Stooges, che poi altro non è se non “riequilibrare” la visione di questo gruppo fondamentale. Ed aggiungo che a me interessa il consenso dei lettori che sanno quello che dicono, che hanno un “passato” di approfondimento della musica rock. Leggo sul web ogni tanto dei facili entusiasmi, senza esprimere alcuna motivazione, per delle autentiche scemenze. Meglio pochi (o comunque non troppi) lettori ma buoni! Tanto non siamo mica degli influencer. Grazie a te!

      • Fabio Zavatarelli ha detto:

        ….. e stanotte è morto Wayne Kramer degli MC5 …. altro capitolo musicale ingiustamente etichettato come punk.
        🙁

  • Alessandro Ariatti ha detto:

    Ciao Beppe, ho letto questo tuo nuovo articolo con un sentimento diviso a metà tra curiosità e nostalgia (canaglia). Trattasi infatti di dischi con cui sono cresciuto grazie alle tue gloriose Shock Relics su Metal Shock. Ovviamente c’è ben poco da aggiungere rispetto al tuo scritto, l’unica cosa che posso dire è che, tra tutti i capolavori (perché di capolavori si parla) trattati nel pezzo, quello che ascolto con più frequenza negli ultimi anni è proprio “Runners In The Night”. Questione di preferenze stilistiche che prendono forma nel tempo.
    Grazie!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Alessandro. Certo, questione di preferenze che prendono forma nel tempo, ma anche di periodi. Ci sono tempi in cui ho preferito ascoltare un genere musicale, altre volte uno differente. Corsi e ricorsi come nella storia del rock, dove “a volte ritornano” (certe sonorità del passato, riviste in ottica attuale). L’importante è che ci sia qualità appurata e piacere nell’ascolto. La tua scelta non è comunque la più scontata! Grazie, alla prossima.

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