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ALBUM & CDC'era una volta HARD & HEAVY

Rush: restaurato il masterpiece “Moving Pictures”

Di 22 Aprile 2022Luglio 29th, 202220 Commenti

Rush 1981 (Foto: Fin Costello)

Architetture di metallo innovativo

Può capitare che singolari, tragiche coincidenze accomunino la sorte di formazioni fra le più influenti della storia del rock. Led Zeppelin, principali responsabili della genesi hard’n’heavy, hanno globalizzato eterogenee influenze rock’n’roll, blues e country-folk in un linguaggio musicale fondato su una perfetta “chimica” di gruppo; non a caso la loro parabola si è conclusa con la scomparsa dell’irrinunciabile batterista John Bonham, nel 1980.
Un altro nucleo di rilevanza epocale, nato anch’esso nel 1968, ma affermatosi più tardi rispetto alla subitanea ascesa dei Led Zeppelin, è quello dei loro “predestinati” eredi canadesi, Rush. Evolvendosi dalle stesse matrici rock-blues a tutto volume sperimentate in Inghilterra dai Cream, Yardbirds, Who e dallo stesso Hendrix, all’esordio con l’omonimo “Rush” (1974, in origine su etichetta indipendente Moon), il trio di Toronto poteva forse candidarsi al titolo di “Zeppelin figli di un Dio minore”; ma con la sostituzione di John Rutsey e l’avvento di Neil Peart, il batterista “definitivo” reduce da un un anno e mezzo di apprendistato come session-man a Londra, i Rush affrontavano una costante fase ascensionale. L’assetto stabile, completato dai membri originali Alex Lifeson (chitarra) e Geddy Lee (voce, basso, tastiere) avrebbe assicurato ai musicisti una carriera ben più longeva rispetto agli Zeppelin. Fatalmente, anch’essa si è conclusa al di là di precedenti avvisaglie, con la malattia di Neil Peart, costretto a soccombere ad un tumore nel 2020.
Ma il lascito dei Rush è stato enorme. Negli anni ’60, il Canada aveva esportato negli U.S.A. i suoi luminari di spicco: Neil Young, Joni Mitchell, Robbie Robertson della Band, oltre ai pionieri heavy Steppenwolf (quelli di “Born To Be Wild”), affinché conquistassero una celebrità planetaria.
Il rock canadese era apparso sulla mappa musicale nel 1970 anche con uno sporadico hit dei Guess Who, “American Woman”. Proprio dalle ceneri di questi ultimi erano nati i Bachman-Turner Overdrive, che con l’hard rock granitico del terzo album “Not Fragile” si erano imposti a livello internazionale, ricevendo attenzione anche in Italia. Nulla di paragonabile a quello che avrebbero rappresentato i Rush per la scena di Toronto, elevata al rango di madre prolifica di talenti dalla seconda metà dei ’70 in poi; infatti l’ascendente del triumvirato prodotto da Terry Brown – un inglese emigrato in Canada con il quale si era costituito un duraturo sodalizio – è andato ben oltre i confini nazionali.

La prima “era mitologica” dei Rush, rappresentata dagli album “Fly By Night” e “Caress Of Steel” (entrambi del ’75) svelava un’impronta epica & fantascientifica sia nelle liriche, scritte dall’eclettico Neil Peart, sia nel seminale impatto proto-heavy metal di “Necromancer”, “Bastille Day” e della monumentale “By-Tor & The Snow Dog”, che eserciteranno un’influenza prioritaria sulla NWOBHM, nei confronti di future star come Def Leppard (si pensi al primo EP su Bludgeon Riffola) ed anche di gruppi minori, dagli Shiva ai Limelight.
L’autentico capolavoro che suggella la prima fase discografica dei Rush, anticipando le evoluzioni successive, è il quarto album “2112” (1976); ad esso va attribuita l’invenzione del progressive-metal da parte del trio di Toronto. L’ibrido stilistico fra l’illuminata vena hard rock degli Zeppelin ed il virtuosismo tecnico-compositivo degli Yes raggiunge qui la sua massima espressione; i registri vocali di Geddy Lee suggeriscono il paragone con l’allora stupefacente cult-hero David Surkamp dei Pavlov’s Dog, mentre Peart calibra il suo stile spettacolare, influenzato da Bill Bruford ma anche dalle inusitate colorazioni ritmiche di Mike Giles dei primi King Crimson. Lifeson è l’ideale anello di congiunzione fra la varietà espressiva dei compagni e le potenti dinamiche della musica heavy, che raggiungono vette insuperate nella suite che intitola l’album e nel suo roboante acme, “The Temples Of Syrinx”. All’epoca i contenuti di “2112” furono discussi perché ispirati ad un racconto (“Anthem”, 1938) della scrittrice americana d’origine russa, Ayn Rand, che propugnava una filosofia fondata sui diritti dell’individuo, contraria ad ogni forma di totalitarismo.
Evento ricorrente nell’itinerario discografico dei Rush, giungerà un album live, in questo caso il doppio “All The World’s A Stage” (1976), registrato nella stessa Toronto, a coronare la prima parte della loro storia artistica.
Così “A Farewell To Kings” segna l’inizio di un differente capitolo, dove le tastiere elettroniche di Geddy Lee assumono un ruolo determinante; la nuova tendenza più incline al progressive viene premiata dal successo del singolo “Closer To The Heart”, che oltre a riecheggiare gli Yes avvicina uno stile più radiofonico, senza denunciare svolte palesemente commerciali. Questo processo continua con aperture sinfoniche-cosmiche in “Hemispheres”, approdando alla sintesi magistrale di “Permanent Waves” (1980), che si affaccia sul nuovo decennio con l’hit fin qui più consistente, “Spirit Of The Radio”, archetipo allora ultra-moderno di hard rock per FM, i cui influssi, a mio avviso, giungono fino alle freschissime glorie dei Ghost di “Kaisarion”.

Rush al “Le Studio” nel Quebec (Foto: Yael Brandeis)

"Moving Pictures", ieri & oggi

“Moving Pictures”, edizione del 40° Anniversario (Design: Hugh Syme)

Sulla scia del successo di “Permanent Waves”, i Rush consolidano un livello di venerazione anche nel Regno Unito, dove pur stanno imponendosi le forme più aggressive ed oltranziste della “nuova onda” heavy metal. Il Rock Poll di Sounds, settimanale-leader del settore, li elegge al terzo posto assoluto fra i gruppi, assegnando posizioni di vertice anche ai singoli musicisti nelle rispettive categorie.
Geddy Lee ha recentemente riconosciuto quel periodo come “il più felice della loro vita artistica”. Dunque, con rinnovate ambizioni ed entusiasmo, nell’ottobre 1980 i Rush ed il loro “quarto membro”, il produttore Terry Brown, si ritrovano nel Le Studio del Quebec per allestire un’altra pietra miliare, l’ottavo album di studio “Moving Pictures”, che vedrà la luce il 12 febbraio 1981, e diventerà il loro best seller in carriera.
“Moving Pictures” sarà destinato ad una rivalità interna con “2112” per la disputa di massima espressione dei Rush, fra i loro fedelissimi di estrazione hard rock. Di certo, riporta il gruppo verso sonorità più dure se non proprio intransigenti, cogliendo lo spirito dei tempi di riscossa heavy, ma in termini di suprema sofisticazione.
Si erge dunque ad opera-sintesi che precorre il metal progressivo degli anni ’80, in grado di estendere oltre i domini conosciuti il linguaggio del rock superamplificato, con l’indubbia eleganza stilistica propria di musicisti di nobile lignaggio come Lee, Lifeson e Peart.
Senza il seminale “Moving Pictures”, difficilmente Queensryche, Dream Theater, Fates Warning ed altri Symphony X avrebbero ricercato la libertà d’espressione insita nelle loro opere più creative. Ma la portata dei Rush ha superato le barriere stilistiche, contagiando anche le tendenze rock degli anni ’90, e non è un caso che a redigere le note illustrative dell’edizione del 40° Anniversario, siano stati chiamati fra gli altri Kim Thayil dei Soundgarden, Les Claypool dei Primus e lo stesso Taylor Hawkins, batterista recentemente scomparso dei Foo Fighters. Si ricordi che insieme a Dave Grohl, Taylor aveva presentato i Rush nella cerimonia d’ingresso nella Rock And Roll Hall Of Fame del 2013.

Al di là dell’“ambito riconoscimento”, per noi resta più significativa la spettacolare introduzione all’album, “Tom Sawyer”; un classico che sfida i mutamenti dei tempi e delle mode sulle onde FM americane, nonostante una struttura nient’affatto essenziale. E’ una perfetta rappresentazione di quello che potevano essere i Led Zeppelin proiettati nel futuro, in una “spazialità” d’atmosfera che contempla gli slanci progressive delle tastiere. Nei Rush ogni strumento assume il proprio, narcisistico rilievo individuale, ma con un gusto pittorico che rende la loro estetica assolutamente ammaliatrice, anche quando l’intreccio delle combinazioni fra chitarra e sezione ritmica appaiono impervie, ma pur sempre di cronometrica precisione.
“Red Barchetta” offre veramente la sensazione di sfrecciare al volante della spider rossa, con cambi di ritmo che ne illustrano scenograficamente il moto perpetuo ed un percorso fra paesaggi immaginari. Il brano dedicato all’aeroporto internazionale di Toronto, rappresentato dal codice “YYZ” è invece uno strumentale subito identificabile come prog-metal, modello originale delle elucubrazioni tecnicistiche di tanti seguaci, non sempre contraddistinti da un tasso di classe adeguato. E’ inoltre l’ennesima dimostrazione del valore di Lifeson come intoccabile solista, emulato negli anni ’80 da una generazione di guitar heroes “virtuosi” che hanno raccolto una popolarità individuale talvolta superiore, senza però reggerne il confronto.
Dopo questi fraseggi serrati, è una boccata d’ossigeno ascoltare in apertura il riff di chitarra & organo di “Limelight”, che mi ricorda gli amati Legs Diamond e generalmente una struttura musicale più luminosa, appunto, e melodica.
“Camera Eye” è una sorta di volo pindarico nei cieli sopra gli scenari metropolitani di New York e Londra. E’ annunciata da tocchi di synth Emersoniani (epoca “Pictures…”) che precedono un’andatura cadenzata ad arte per illustrare orizzonti sconfinati a guisa di cangianti ambientazioni prevalentemente strumentali, nonostante l’ispirazione risalga ad un’opera letteraria, il racconto di Jon Dos Passos, “Manhattan”. La durata che avvicina gli undici minuti lo rende il test di resistenza dell’album.

Artwork originale di Hugh Syme

Rush (Foto: Fin Costello)

Cambia completamente la coreografia di “Witch Hunt”, che risponde in modo personalissimo al culto del gotico spettrale riemerso fra i flutti torbidi della resurrezione metallica. I rintocchi del glockenspiel di Neil Peart instaurano un’atmosfera di suspense mentre sullo sfondo riecheggiano le urla dei furenti vigilantes alla caccia delle streghe, nella notte nera, nemmeno rischiarata dalla luce lunare. Il sinistro riff è accentuato dalle aperture orchestrali del synth suonato da Hugh Syme, l’art director della copertina, mentre il testo si accanisce contro il clima di oscurantismo, tacciato di “ignoranza, pregiudizio e paura”, che può anche esser un’allegoria di realtà attuali. Infine, “Vital Signs” è un ulteriore sintomo di svolta verso stili differenti; la chitarra reggatta di Lifeson ripresenta affinità con i Police, mentre gli effetti elettronici computerizzati infondono al brano un anelito new wave che si coglie anche nel cantato di Geddy Lee.
E’ l’indice del cambiamento che un anno dopo investirà in termini più appariscenti il successivo “Signals”, titolo sintomatico dell’infittirsi di procedimenti electro-rock, post-wave, ma anche di AOR tecnologico/evoluto, comunque ricomposti alla luce dello svettante carisma del super trio canadese. Mentre gli anni ’80 avanzavano come “IL decennio dell’heavy metal”, gli esponenti forse più creativi di quel filone, Rush, sfidavano le masse per affermare la propria distinzione senza per questo tradire le loro origini. Alla fine dell’83 interrompevano persino il duraturo rapporto con Brown, sostituito da Paul Henderson per le sessioni di registrazione di “Grace Under Pressure”. Non si interrompeva il rapporto d’amore con il pubblico, che ha sempre attribuito ai Rush la statura di gruppo UNICO, come si conviene ai fuoriclasse.

"Live In XYZ 1981"

Rush live (Foto: Phillip Kamen)

Con un considerevole ritardo di circa un anno e due mesi rispetto all’edizione originale, escono a metà aprile le versioni celebrative del 40° Anniversario di “Moving Pictures” (Mercury-UMe). Fra le cinque configurazioni proposte, la più prestigiosa è custodita nel box Super Deluxe, costituito da 5 LP in vinile nero 180 gr., 3 CD e Blu-ray audio/video. Include anche innumerevoli gadgets, fra cui un modellino della “Red Barchetta” e le bacchette della batteria di Peart marchiate con il logo MP 40, libro di 44 pagine ridisegnato da Hugh Syme, già responsabile dell’artwork 1981, poster, litografia tridimensionale etc.
Per una panoramica completa invito a visionare il link:

Per chi non può permettersi il costo dell’edizione ultra-lussuosa, non inferiore ai 280€, le principali alternative in formato ridotto sono la Deluxe di 5 LP con nuova masterizzazione DMM (half-speed Direct to Metal Mastering) che include libro illustrato, oppure la Deluxe di 3 CD, con remaster del 2015 per la prima volta su compact. In questo caso il fascicolo è limitato a 24 pagine.
Tutti le riedizioni includono però l’autentico valore aggiunto di questo quarantennale, ossia il concerto inedito di due ore, battezzato “Live In XYZ 1981”, tenuto al Maple Leaf Gardens di Toronto, Ontario, il 25 marzo 1981. Due giorni dopo, parziali registrazioni della performance di Montreal sarebbero state preferite per il loro secondo live, “Exit…Stage Left”, ma a giudicare da questa riscoperta, è difficile stabilire il perché.

Il repertorio esibito nella città natale è più completo, ed include anche l’unico inedito di “Exit”, il fugace saggio di chitarra classica di Alex in “Broon’s Bane”, che fungeva da preludio al prog bucolico di “The Trees”.
Come accennavo in uno scritto del lontano 1989, i doppi album dal vivo hanno scandito ciclicamente la storia del più grande gruppo rock canadese, suggellando le sue tappe evolutive. Così, se “All The World’s A Stage” incorniciava le epiche suggestioni originarie, “Exit…Stage Left” faceva lo stesso per la conseguente tendenza prog, e senza andare troppo oltre, “A Show Of Hands” faceva il punto sulla sfida all’OK Computer degli anni ’80, in modo ancor più selettivo, da “Moving Pictures” in poi.
“Live In XYZ 1981” è un’altra ingegnosa indagine sull’universo fino a quel punto esplorato dai Rush, che avrebbe potuto benissimo sostituire “Exit” per qualità e compiutezza. E se quest’ultimo esordiva con l’hit della consacrazione, “Spirit Of The Radio”, il concerto di Toronto – che naturalmente la ripresenta – è invece inaugurato dalle antecedenti mirabilie mitologico/futuriste dell’Overture di “2112”; l’urlo di Geddy Lee sembra liberarne di colpo l’energia, ed il cantante/polistrumentista appare letteralmente on fire nella successiva, trionfale “The Temples Of Syrinx”. Di celebrazione di “Moving Pictures” si tratta, quindi opportunamente vi figurano tutti i brani, con la spiacevole eccezione di “Witch Hunt”. “XYZ” è invece prolungata dall’acclamato showcase dei “ritmi mistici” di Neil Peart, batterista fra i più quotati che mai abbiano calcato i palcoscenici rock.
La maestria dei protagonisti non necessita di ulteriori commenti, mentre è interessante annotare come il loro versante più sperimentale trovi in questa sede adeguato spazio, iniziando dal preludio di “Hemispheres” (“Cygnus X-1 Book II”). Entrambi gli album di evidente matrice prog (“A Farewell To Kings” e “Hemispheres”) sono ben rappresentati, non solo dal più accessibile singolo “Closer To The Heart”, ma in stesure assai complesse come “The Trees” e soprattutto “Xanadu” e “La Villa Strangiato”, acrobatiche sonorizzazioni in perpetua metamorfosi, che incutono un maestoso senso di soggezione. Dal passato riemerge anche “Beneath, Between & Behind”, tratta dagli aggressivi solchi di “Fly By Night”, mentre una composita Medley include “Working Man” dell’album d’esordio, ma con arrangiamento reggae, una fugace “By-Tor & The Snow Dog”, per concludersi con il “Grand Finale” di “2112”.
“Live In XYZ 1981” è a sua volta un trattato di moderna arte rock, quando ancora poteva definirsi tale.

Geddy Lee, Alex Lifeson, Neil Peart (Foto: Fin Costello)

Appendice: L'omaggio dei Rush alle loro radici musicali

La lezione dei Rush è stata istruttiva anche in un ambito affollato come quello delle cover versions. Se i titani dell’hard rock sperimentale hanno pagato il loro tributo alla memoria storica degli anni ’60, è lecito che i numerosi ammiratori trascurino quell’indimenticabile tradizione? Stavolta non è ardua la sentenza.
Risaliamo all’inizio d’estate 1994: per celebrare il tour del 30° Anniversario, i Rush avevano messo in disparte il loro eclettico percorso discografico attraverso epic-rock, progressive-metal e suoni post-wave, risalendo con “Feedback”, un EP costituito da otto esemplari rifacimenti, decisamente alle radici, ossia ai tempi in cui Lifeson, Lee e Peart erano adolescenti nei loro anni di apprendistato. Ancor prima della genesi dei Rush, si ispiravano ai grandi nomi in voga nella seconda metà dei Sixties. Forse così si spiega l’assenza di pezzi firmati Page & Plant, nonostante agli esordi il gran triumvirato canadese fosse stato battezzato, un po’ ironicamente, Led Zeppelin Junior. La realizzazione di “Feedback” fu ancor più significativa se consideriamo che i Rush si sono sempre concentrati sulle composizioni originali, con la solo eccezione di un primo, oscuro singolo (1973), che includeva la versione di “Not Fade Away” di Buddy Holly, precedente ed escluso dalla pubblicazione del debut-album.
La partenza di “Feedback” è davvero al fulmicotone: un’esibizione da autentico power-trio, noncurante delle alchimie di studio, per un dirompente remake di “Summertime Blues”, il classico di Eddie Cochran rivisitato dagli Who, ma che i Rush ricordano soprattutto nella turgida cover dei Blue Cheer. Il gruppo di Pete Townshend è invece rievocato in “The Seeker”.

Manca dunque l’omaggio agli Zeppelin, ma non certo ai loro precursori Yardbirds, risolto nelle epocali “Heart Full Of Soul”, dove Geddy Lee ben ricompone l’indimenticabile refrain, e “Shapes Of Things”, più fedele all’originale rispetto alla burrascosa versione dei “rampanti” Nazareth. E se appariva d’obbligo il rifarsi ad un’altra perfetta formazione triangolare, Cream (in “Crossroads” di Robert Johnson), meno prevedibili le scelte di due pezzi dei Buffalo Springfield (“Mr.Soul” e “For What It’s Worth”) e di “Seven & Seven Is” dei Love, dove Alex Lifeson incorona idealmente il loro magistrale chitarrista Arthur Lee con uno splendido assolo. Le esecuzioni, tutte ad alto gradiente elettrico, sono ovviamente ineccepibili, ma vi emerge soprattutto una carica passionale insolita per il trio, talvolta tacciato di chirurgica freddezza.
Tu chiamale se vuoi, emozioni! Val la pena riportare indietro le lancette del tempo.

Geddy e Alex discutono le opzioni stilistiche di “MP” (Foto: Fin Costello)

20 Commenti

  • Marmar ha detto:

    Ciao Beppe, sono talmente contento nel leggere un tuo articolo sui leggendari “RUSH” che passo sopra a due erroretti niente male (“Emispheres” e non Hemispheres”, “XYZ” e non “YYZ”….), ma fa nulla. Ottima disamina sulla carriera e sul disco, che definire epocale è ancora riduttivo, ma d’altronde le leggende non nascono a caso. Per me i RUSH rappresentano il gruppo che più di ogni altro nella storia del rock ha saputo crescere e reinventarsi, con un gusto unico accompagnato a delle straordinarie capacità tecniche e compositive. Che dire, tre Numeri 1 indiscussi nei loro strumenti, che hanno creato una miscela unica ed irripetibile, almeno fino ad un certo punto, ma che poi hanno vissuto la seconda parte di carriera sempre con fierezza ed estrema professionalità, senza mai svendersi, e per questo sono retrospettivamente sempre più amati e stimati. Per me non c’è un loro disco dal loro esordio (che sarà pur Zeppeliniano, ma con già un gusto e un tocco unici) che non sia un capolavoro, almeno fino al scintillante “Power Windows”; poi si è spento qualcosa, vabbeh, l’ispirazione massima non può essere eterna. Personalmente stravedo per “All the world’s a stage” ma anche per “Signals”, passando per “Permanent Waves”, quindi quasi musica agli antipodi ma sempre legata da un sottile filo conduttore, logico ed evolutivo, frutto del pensiero di artisti superiori. E se ti dicessi che forse in assoluto il mio preferito è proprio “Signals”, ovvero il salto quasi quantico da “Moving Pictures”? Difficile comunque scegliere…. Saluti

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Marco, chiedo venia per gli errori di battitura commessi (e che ho provveduto opportunamente a correggere). Purtroppo quando qualcuno rilegge sé stesso capita di non accorgersi, non è la prima volta e non sarà l’ultima. Per quanto riguarda l’analisi della carriera dei numi canadesi che hai sintetizzato, l’hai fatto in modo molto chiaro e giustamente “personalizzato”, quindi fa piacere che un serio fan dei Rush abbia apprezzato, al di là dei refusi…Grazie

      • Marmar ha detto:

        Beppe, grazie a te che continui a deliziarci con la tua enorme cultura musicale. Per me è un onore oggi scambiare opinioni con la mia “guida” di 40 anni fa…. passa il tempo, eh….

        • Beppe Riva ha detto:

          È anche gratificante esser definito “guida” da chi è evidentemente preparato. Il tempo purtroppo non è più dalla “nostra” parte. Ciao

  • giorgio ha detto:

    Basta Beppe, i tuoi articoli sono coronarici, qui avrai sulla coscienza dei r’n’ r fans. Solo la parola Rush, incute timore e riverenza. Che band, come i BOC mi hanno sempre affascinato in tutte le loro ere/epoche. Non aggiungo altro, vorrei infilarmi nel computer e abbracciarti per il rock che scorre nelle vene, me lo fai visionare con foto, notizie e approfondimenti. Evviva i Rush !!!!!!!!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Giorgio, ti ringrazio anche per questa “approvazione” e ricambio l’abbraccio. Certo, la storia dei Rush non si discute, cerchiamo di onorarla come possiamo e siamo in grado di fare, quindi non proprio alla “loro” altezza artistica, ma con passione.

  • Alessandro Ariatti ha detto:

    Grandissimo album, ma anche ricostruzione MAGISTRALE, come solo tu sai fare, di un periodo storico. Anche io sono un grandissimo estimatore dei Rush anni ’80, sicuramente più pragmatici di quelli anni 70, ma non per questo meno geniali. Anzi, trovo che in quella decade abbiano sublimato il dono della sintesi filtrandolo attraverso la loro grandeur. Ciao Beppe, sempre grazie.

    • Beppe Riva ha detto:

      Sai Alessandro, come hai ben capito, cerco sempre di contestualizzare i gruppi trattati, naturalmente in sintesi. Se la sintesi è efficace, sono contento. Ricordo che la svolta anni ’80 dei Rush ha inizialmente spiazzato molti appassionati di estrazione heavy, ma alla fine del decennio il consuntivo artistico è stato approvato praticamente all’unanimità. E più il tempo passa, più il valore storico della discografia dei Rush aumenta. Ti saluto e ringrazio.

  • Giuseppe ha detto:

    grande Beppe, se dovessi ripagarmi i soldi che mi fai spendere ad ogni articolo andresti in bancarotta … scherzo, ovviamente, ti prego di non smettere mai … e intanto ho ordinato la deluxe in vinile, pur possedendo già l’LP originale … si era già detto per le deluxe dei Black Sabbath, ti ricordi? al cuor non si comanda! un abbraccio!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Giuseppe, si, “generalmente ricordo” chi mi ha scritto, e non son pochi per fortuna, anche se non “ricordo perfettamente”, quella è un’esclusiva del Trombetti! Se non facessi comprare qualche disco significherebbe che non funziono più, quindi è meglio così…Scrivo in buona fede, se i lettori mi danno retta sono contento. Grazie

  • Roberto Torasso ha detto:

    Ciao Beppe, entusiasmante, come sempre, la tua rilettura dell’operato di una band eccelsa che purtroppo non esiste più per il motivo che sappiamo ma che ha lasciato un’impronta indelebile nel cammino dell’evoluzione della musica Rock.
    Già, perché la chiave di lettura quando si parla dei Rush è progressione proprio come si parlava dei Led Zeppelin.. Una band che non amava ripetere se stessa e sceglieva di percorrere strade ogni volta diverse spiazzando a volte l’audience come ad esempio con la svolta di Signals…
    Per questo personalmente considero Moving pictures soltanto uno delle opere più riuscite ma non la più considerevole perché non sembrerebbe giusto nei confronti della restante discografia che offre spunti di interesse per ogni ambito scandagliato, anche nei lavori più recenti..
    Menzione di margine anche per John Rutsey scomparso anch’egli che pur non avendo la rilevanza di Neil ha contribuito alla costruzione della leggenda Rush…

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Roberto, concordo sul fatto che quando si parla di grandi gruppi, scegliere il miglior album è pura esercitazione retorica perché il valore ad esempio dei Rush non si misura su un singolo episodio. Capisco benissimo che su discografie d’alto livello, le preferenze siano soggettive, poi bisogna valutare dei momenti storici fondamentali. Ti ringrazio per l’apprezzamento.

  • Leandro ha detto:

    La foto del tuo articolo dei Rush a “Le Studio” al massimo splendore mi fa pensare al degrado assoluto e rovinoso in cui ora si trova quella gloriosa struttura. Le cose possono essere distrutte, ma questa musica deve continuare a vivere anche attraverso di noi. Grazie di cuore del tuo incoraggiamento per noi preziosissimo.

    • Beppe Riva ha detto:

      Caro Leandro, quella foto del Le Studio mi è piaciuta subito perché oltre le vetrate si vedeva il paesaggio invernale e quindi si poteva un pò sognare l’atmosfera di quei momenti. Sul decadimento come non essere d’accordo con te? A proposito dell'”incoraggiamento”, faccio una premessa: Giancarlo ha ripetuto nello scritto più recente che “me ne sto alla larga dai Social”. E’ vero, per quel poco di esperienza personale, so bene che i social sono popolati da serpentelli velenosi che spesso si divertono a mordere senza apparente motivo, nascondendosi dietro false identità. Pura vigliaccheria, direbbe Tex Willer. Però ci sono aspetti lodevoli dei social, come il vostro gruppo Emersonology (conosco bene Paolo, ora conosco anche te, grazie ai tuoi interventi sul Blog) che professano tanta passione sugli artisti preferiti. Siccome non faccio parte della razza degli “invidiosi”, sono ben contento che voi abbiate trovato spazio su una rivista di indubbia importanza, per esprimervi con la competenza che vi è riconosciuta. Bravi, avanti così e forza “Trilogy”!

  • Fulvio ha detto:

    Ciao Beppe,
    Grande regalo questo articolo!
    I Rush sono il mio gruppo preferito da sempre e per sempre.
    Aggiungo una mia riflessione prendendo spunto dal concetto di “rivalità interna tra Moving Pictures e 2112 per il titolo di massima espressione dei Rush”: secondo me il problema non si pone, nel senso che sono entrambi la massima espressione di due periodi diversi di questa grande band. Forse semplificando troppo ho comunque sempre diviso la loro carriera in “decenni”: gli anni ’70 rappresentati da 2112, gli ’80 (stratosferici) con il filotto Permanent Waves, Moving Pictures, Signal, Grace Under Pressure, Power Windows, Hold Your Fire (tutti secondo me di livello altissimo), I ’90, secondo me leggermente sottotono già a partire da “Presto” dell’ ’89 ed il nuovo millennio sublimato secondo me dall’ultimo album in studio “Clocwork Angels”.
    Insomma, una discografia inarrivabile e di grande varietà in cui la ricerca della massima espressione credo non possa avere una risposta univoca. Forse una buona sintesi può essere la somma dei due immensi live “Exit…” e “A show of hands”.
    Di loro comunque ho qualsiasi cosa ed ogni “special edition” è una tentazione ed un attentato al portafoglio (comprese le varie cose uscite nei Record Store Days).
    Oltre a “Feedback” ho anche il vinile 7″ con “7 and 7 is”: lato A la versione originale dei Love e lato B la cover dei Rush (Record Store Day 2014, vinile colorato giallo lato “Love” ed arancio lato “Rush”.).
    Scusandomi per essermi dilungato un po’, ti ringrazio ancora.
    Un saluto

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Fulvio, come ho già detto a Lorenzo, esser giudicato “utile alla causa” di chi è un esperto appassionato del gruppo in questione, per me è come realizzare un goal. Ripeto inoltre che è bello ed anche istruttivo leggere le vostre opinioni sugli artisti trattati, che dimostrano tanto coinvolgimento. Quindi, non c’è da scusarsi se ti dilunghi con argomenti concreti. Anzi, grazie!

  • Lorenzo ha detto:

    Buongiorno Beppe.
    Ordinata oggi la più modesta edizione in 3 cd, poichè sono curioso di sentire il live.
    Questa sarà la quarta volta che compro questo cd (1° cd normale, 2° edizione remaster ricompresa nei tre cofanetti sector 1-2-3, 3° edizione del 35ennale con versione audio surround, 4° edizione del 40ennale oggetto del presente articolo).
    In questo caso c’è effettivamente un valore aggiunto con il live, fondamentale per giustificare operazioni come questa. Certo la super deluxe è spettacolare, ma va oltre i miei budget.
    Detto che nel caso dei Rush non resisto alla tentazione delle edizioni celebrative (ne hanno prodotte diverse tutte molto belle, per Hemispheres, A farewell to Kings, 2112), è difficile aggiungere altre lodi nei confronti di Moving Pictures, disco che va a coronare il periodo artisticamente forse più ricco del trio canadese.
    Auspico operazioni del genere anche per Signals, quantomeno.
    Trovo estremamente corretto il parallelo con i Led Zeppelin, entrambi le band si sono fermate nel momento in cui uno dei membri è uscito di scena, a testimonianza della interazione non più replicabile con nuovi musicisti.
    Il disco di cover è forse l’unica cosa dei Rush che non possiedo, in quanto non amante dei cover album, ma magari lo recupero.
    Grazie ancora per questi scritti inestimabili.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Lorenzo, è motivo d’orgoglio esser apprezzati da chi dimostra di ben conoscere la materia trattata (in questo caso tu lo evidenzi con i Rush) ed è anche una “sfida”, se mi è concesso il termine, che mette un pò di apprensione, perché occuparsi di gruppi di cui moltissimo è già stato detto, rischia di essere un boomerang. Pertanto ti ringrazio per il giudizio sul mio operato. Per quanto riguarda le cover versions, ho lasciato intuire che si tratta di una prassi piuttosto abusata, ma c’è modo e modo, ovviamente, di proporle. Il mio fine è anche quello di stimolare i nostri lettori all’ascolto di gruppi e dischi precedenti agli anni ’80. Non è un mistero che in questo Blog si sono ritrovati molti “nostalgici” delle letture di Rockerilla/Metal Shock di quel decennio. Cerco di offrir loro materiale che possa ricollegarli a quei trascorsi, ma ripeto, è fondamentale conoscere anche ciò che è venuto prima (compatibilmente ai gusti musicali), e che ricorderete, ho trattato spesso e volentieri nelle rubriche dedicate di quelle riviste. L’Appendice di “Feedback” ha questo scopo…

  • Leandro ha detto:

    Ciao Beppe, e grazie per avermi fatto riflettere sull’incipit di Camera Eye. L’alchimia irripetibile di una carriera sotto il segno dell’amicizia, dell’audacia e del rispetto verso il proprio pubblico, come anche queste pubblicazioni dimostrano. Trovo un pò deboli e non adeguati al livello generale i pezzi di chiusura di questo e del successivo Signals verso cui ho un’autentica venerazione: sarà forse il prossimo box set? Faccio spazio nello scaffale…

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Leandro, può essere che la prossima volta tocchi a “Signals” visti i precedenti già significativi nel programma di ristampe dei Rush. Fa sempre piacere il tuo apprezzamento, ed a mia volta sono in attesa di leggere su Prog (Italia) la celebrazione del 50° Anniversario di “Trilogy” dei “nostri” ELP, che sarà curata dal team di Emersonology di cui fai parte. Mi unisco idealmente a voi nel giusto omaggio!

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