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C'era una volta HARD & HEAVYTimeless : i classici

Ricordi di Rock Melodico degli anni ’80 finiti nell’oblio

Di 21 Dicembre 202314 Commenti

Dieci gemme AOR da culto, ormai dimenticate, ed un profilo essenziale dei loro autori

Non gradisco ripetermi ad oltranza, ma ogni tanto vale l’antica sentenza latina repetita iuvant; quindi, riaffermo che per quanto mi riguarda, il rock non è morto con i grandi gruppi & artisti dei Seventies, teoria impugnata da numerosi “classicisti”.
Personalmente, rivivo con intensità rimembranze e perché no? nostalgia degli anni ’80. Non posso che definire così ciò che provo ciclicamente nel ripercorrere il mio iter d’approfondimento della musica che ho amato. Ci sono corsi e ricorsi, accostandosi alla musica del passato, che pungolano la propria passione per un genere piuttosto che un altro, anche se tutto fa parte dello stesso bagaglio di emozioni e conoscenze.
Semplificando, in certi periodi mi sento più attratto dal riaccostarmi al progressive, altre volte all’hard’n’heavy, oppure all’underground di epoche differenti.
Ultimamente, sarà per i ricordi di anni vissuti con maggior “leggerezza”, quando l’età era lungi dal cominciare a pesare, oppure per la generale sensazione di maggior ottimismo che allora si respirava, distante dalle molteplici crisi attuali, vado ad attingere con accentuata frequenza dalla mia collezione di Melodic Rock, come si dice oggi, oppure di Adult Oriented Rock, come ricorreva a quei tempi.
Era l’ideale colonna sonora di quel decennio, del “sogno americano” in musica, di grandi produzioni che creavano atmosfere speciali e definitivamente, di superbe canzoni, che poi rappresentano la quintessenza dei ricordi nel rock stesso. Suoni spettacolari che non si riproducono più oggi, nonostante la buona volontà di molti epigoni, perché come sosteneva James Christian degli House Of Lords, il grande rimpianto è la mancanza dei budget elevati per gli studi “milionari” degli Ottanta. In omaggio a questo stile radio friendly su cui non sto a dilungarmi, a suo tempo avevo istituito una rubrica su Metal Shock, “A.O.R. Heaven” di cui accennerò nel corso di questa rassegna, che a mio avviso è stata determinante per la sua iniziale diffusione.
Rassegna dedicata ad artisti ormai finiti nell’oblio, anche nel caso iniziale dei più rinomati Loverboy, e che comunque nella nostra Penisola non hanno mai raggiunto, ad esempio, le vette di popolarità dell’heavy metal, rimanendo confinati in una fortezza di appassionati conoscitori. Ripercorriamo inter nos qualche luminoso momento di quella saga, specificando le rispettive caratteristiche, perché ogni brano vanta la propria distinzione melodica, ed è ciò che fa la differenza.

LOVERBOY: “Working For The Weekend”

Tratta dall’album “Get Lucky” (Columbia, 1981)

Negli anni ’80, la scena hard’n’heavy canadese ha rivestito un’importanza inferiore solo alle superpotenze (Gran Bretagna e U.S.A.) essendosi già affermata nel decennio precedente, sguinzagliando gruppi di livello internazionale come Rush, Triumph, April Wine, Frank Marino & Mahogany Rush.
Niente affatto secondari erano i Moxy, che in patria, nella seconda metà dei Settanta rivaleggiavano in popolarità con i Rush, mentre fra i pionieri del rock melodico-radiofonico, spiccavano gli Streetheart. Dai primi fuoriusciva il cantante Michael Rynosky (Mike Reno), che fondava i Loverboy con il chitarrista Paul Dean ed il batterista Matt Frenette, entrambi ex-Streetheart. Proprio con i Loverboy, prime-movers dell’AOR della “foglia d’acero”, iniziamo questa rassegna di mie indimenticabili canzoni rock degli anni ’80, e nel loro caso non si tratta certo di semisconosciuti, perché trascendendo i confini nazionali, Loverboy divennero rapidamente una band multi-platino negli Stati Uniti.

Ma la scelta non è fuori luogo, infatti in Europa non andarono oltre un consenso da culto, come numerosi e meno noti rappresentanti del rock melodico. All’epoca, eravamo tutti prioritariamente occupati a tessere le lodi della NWOBHM e della conseguente esplosione metallica in America. Ma i Loverboy sono stati un’originale risposta ai Foreigner, realizzando con il loro secondo album “Get Lucky” il perfetto pop-rock per FM, caratterizzato anche dalle dinamiche tastiere di Doug Johnson e dalla produzione del fuoriclasse di Vancouver, Bruce Fairbairn (poi “stellato” con Bon Jovi ed Aerosmith, fra i tanti). L’ideale apripista per introdurvi al quintetto costituitosi a Calgary è l’elettrizzante singolo “Working For The Weekend”, dal dinamismo contagioso e slanci al galoppo, che suonano come il perfetto adeguamento, in un contesto più accessibile, degli incalzanti ritmi heavy metal; il testo appare una festosa alternativa rock alla “Febbre del sabato sera”. Non a caso “WFTW” è posto in apertura sia di “Get Lucky”, sia dell’antologia con inediti “Big Ones”, ideale per avvicinarvi al gruppo, se non lo conoscete. Detto che i Loverboy sono tuttora attivi ma lontani dai radar della maggior fama, va ricordata la tragica fine del bassista Scott Smith, sbalzato in mare dalla sua imbarcazione, Sea Major, nei pressi del Golden Gate di San Francisco, in una zona infestata dagli squali. Era il 30 novembre 2000; il suo corpo non fu mai più ritrovato.

TANE' CAIN: “Danger Zone”

Tratta dall’album “Tané Cain” (RCA Victor, 1982)

Artiste femminili si sono sempre distinte, fin dalla seconda metà dei Seventies, nell’ambito del rock melodico d’Oltreoceano, prevalentemente come cantanti (dalle Heart alle Rouge di Desmond Child, proseguendo con Spider, Tantrum, Toronto etc.). In una panoramica di classici ormai distanti nel tempo, non poteva certo mancare una loro rappresentante. Ed iniziamo proprio con un’antesignana nel ruolo di solista AOR: figlia di un attore di Hollywood, Tané Cain fece un’abbagliante apparizione sulle scene con l’album omonimo del 1982, quando già era sposata con Jonathan Cain, fresco reduce dal trionfale ingresso nei Journey, contemporaneamente responsabili del singolo (“Don’t Stop Believin’”) ed album dell’anno (“Escape”) nel genere musicale di cui ci occupiamo. Con l’impegno nelle composizioni del tastierista, che già aveva elevato il tasso qualitativo degli stessi Journey, la sua co-produzione con il veterano Keith Olsen, ed un gruppo di musicisti di prestigio, fra i quali spicca il compagno Neal Schon, non meraviglia il risultato di alto livello.

Aggiungiamo che Tané era probabilmente la donna più affascinante del momento sui palcoscenici del rock’n’roll, e l’intreccio delle sue corde vocali coniugava sensuali inflessioni à la Debbie Harry (Blondie) con l’impeto felino di Pat Benatar; otterremo così il quadro completo di un luminoso debutto. Fra i brani dalla maggior facoltà di saturazione delle onde radiofoniche, scelgo il singolo “Danger Zone”.
La cantante inizia tratteggiando un’atmosfera maliosa, poi il ritmo si fa urgente fino al superbo, classico refrain, sottolineato dal piano elettrico di Jonathan sulle tracce dei Supertramp di “Crime Of The Century” e dai fendenti della chitarra elettrica. Ma i brani appassionanti per ogni (buon) gusto sono vari, da “Temptation” a “Holdin’ On”, senza dimenticare l’assolo di Schon in “My Time To Fly”.
Peccato che l’incantesimo si sia spezzato rapidamente, come in seguito il matrimonio con Cain. Prima del divorzio, la femme fatale era andata in tour con i Van Halen ed aveva annunciato una conversione hard rock con il gruppo battezzato Tahnee Cain And Tryanglz; l’esito lo si può apprezzare nella trilogia di brani presenti sulla colonna sonora del famoso film “Terminator”. Dopodiché, forse in ossequio al DNA paterno e col cognome d’origine McClure, Tané ha preferito dedicarsi alla carriera di attrice…sexy.

i-TEN: “Taking A Cold Look”

Tratta dall’album: “Taking A Cold Look” (Epic, 1983)

Nella cerchia dei più navigati collezionisti AOR, l’unico album degli i-Ten, “Taking A Cold Look”, rappresenta un “classico fra i classici” di quel genere.
Anch’io fui elettrizzato dal suo ritrovamento fra gli scaffali di un emerito negozio di Milano che importò in cospicua quantità introvabili LP di rock americano degli ’80; ne rimasi conquistato al punto che quando i Toto vennero in Italia all’epoca di “The Seventh One” (1988), mi presentai di fronte a Steve Lukather (co-produttore con Keith Olsen, oltre a suonare nel disco) chiedendogli quasi istantaneamente che ricordi aveva degli i-Ten. Il chitarrista mi guardò con una certa insofferenza, colta dal suo discografico che mi rivolse a sua volta un cenno di disappunto (!); Steve mi rispose semplicemente: “Uno dei tanti progetti a cui ho partecipato.” Inevitabile…si stava occupando della promozione della novità discografica dei Toto.

Gli i-Ten erano comunque la creatura di due musicisti e compositori, ancora semisconosciuti nell’83, che realizzarono il solitario “Taking A Cold Look” con l’accompagnamento di strumentisti e session-men eletti: non solo Lukather, ma anche i suoi colleghi dei Toto, David Paich e Steve Porcaro, Alan Pasqua (futuro Giant), Dennis Belfield (già negli Speedway Boulevard), Mike Baird (Journey) e Richard Page (Pages, poi famoso nei Mr. Mister). La qualità dei brani, pur indugiando a sprazzi sul versante soft del rock FM, includeva canzoni di qualità compositiva superiore come la sensazionale “Alone”, trasformata in un numero uno di Billboard dalle Heart nel 1987, oppure “I Don’t Wanna Loose You”, felpata con impennate d’energia, più nota nella versione dei REO Speedwagon.
Pura leggiadria nella loro comfort zone dell’AOR pulsante ma sofisticato è la title-track “Taking A Cold Look”, dotata di un inconfondibile inciso, che avrebbe ben figurato in qualsiasi album dei Toto e compete valorosamente con lo stile di quei maestri del rock melodico. I canadesi Honeymoon Suite, di cui ci occupiamo in seguito, ne registrarono un’efficace versione (“Cold Look”) sull’album “Racing After Midnight”.
Si narra che non furono distribuite più di 15.000 copie dell’LP originale, ma Kelly & Steinberg non ebbero troppo da rammaricarsi di questa marginalità, diventando un tandem di autori responsabile di successi planetari di Madonna, Pat Benatar, Whitney Houston, Pretenders, Cindy Lauper…

ZAPPACOSTA: “Passion”

Tratta dall’album: “Zappacosta” (1984)

Qualche lettore di lungo corso forse ricorda la mia accorata ode al super talento vocale di Zappacosta sulle colonne di Metal Shock, non certo finalizzata a raccogliere consensi fra le “teste metalliche” più radicali che ci seguivano.
La rubrica si chiamava “A.O.R. Heaven” ed era relegata in coda alla rivista perché poco gradita alla redazione, ma fu davvero influente, tant’è che uno dei discografici tuttora in primo piano legati al mondo hard rock, dichiarò il suo colpo di fulmine verso l’AOR perché ispirato da quelle pagine (c’è una lettera pubblicata a testimoniarlo, che mi inorgoglisce). Alfie Zappacosta è nato a Sora, una cittadina in provincia di Frosinone, ben più nota per aver dato i natali ad una celebrità del cinema italiano, Vittorio De Sica, ma emigrò in Canada, dove non giunse affatto in retroguardia negli storici circoli di Toronto, orientandosi verso il rock melodico con i suoi Surrender; esordirono nel ’79 con l’album omonimo, prodotto da Terry Brown (Rush), per replicare nell’82 con il mini-LP “No Surrender”.

Il cantante veniva poi scritturato dalla Capitol, cogliendo l’occasione di affermarsi da solista, anche se la rottura con il gruppo non fu traumatica; infatti il chitarrista Steve Jensen ed il batterista Sean Delaney suonavano con lui nell’opera prima “Zappacosta” (giugno 1984) che gli valse uno Juno Award, l’equivalente del Grammy in Canada, come più promettente voce maschile dell’anno. Il brano di apertura, “Passion”, mi colpì al primo ascolto, grazie alla perfezione del suo spettro vocale, ma il marchio inconfondibile è dettato dal feeling teatrale-melodrammatico nel modulare le melodie, che ne fa una sorta di erede moderno della tradizione operistica; la composizione focalizza uno stile altamente originale, in equilibrio fra rock FM, funky futuribile e new wave, con sorprendenti spunti hi-tech pseudo-sinfonici ed un testo dalla forte carica romantica. Ho privilegiato una scelta più stravagante rispetto ad esempio, alla struggente ballata “Nothing Could Stand In Your Way”, scritta da Alfie con i top-produttori David Foster e Bob Rock (dal secondo album “A To Z”). Per celebrare una delle grandi voci degli anni ’80, purtroppo largamente misconosciuta, concludo ricordando il suo ruolo di protagonista (nella parte di Che Guevara), nel famoso musical “Evita” (1985). In seguito anche Zappacosta, come Michael Bolton, si orienterà con classe innata verso canzoni dal maggior appeal commerciale.

HONEYMOON SUITE: “Feel It Again”

Tratta dall’album: “The Big Prize” (WEA Canada, 1986)

A conferma della mia dichiarata passione per il rock melodico canadese, rispolvero una delle formazioni più rilevanti scaturite da quella scena degli anni ’80, Honeymoon Suite, di irrisoria notorietà nelle nostre lande.
Fondati all’inizio del decennio da Johnny Dee (voce e chitarra) a Niagara Falls, Ontario, gli Honeymoon Suite si sono però affermati nella “capitale musicale” della nazione, Toronto, imponendosi in un concorso indetto da una radio locale. Il brano vincitore era il loro primo classico, “New Girl Now”, che evidenziava una particolarità dell’AOR canadese, ossia fondere i ritmi accesi dell’hard rock con influssi new wave, in America divulgati dalla popolarità dei Cars; nel loro caso la scelta appariva naturale, perché le nuove reclute Derry Grehan (chitarra solista) e Dave Betts (batteria) provenivano da una formazione dell’onda dopo-punk.
Non è un azzardo descrivere “New Girl Now” (registrata ex novo sul loro primo album omonimo dell’84), come una risposta heavy al successo synth-pop di Gary Numan, “Are Friends Electric?”, nonché seminale punto d’incontro fra generi apparentemente distanti.

Il secondo album “The Big Prize” (1986) veniva affidato alle cure del produttore canadese di vertice, il compianto Bruce Fairbairn, ed include il singolo che si addentra nei Top 40 di Billboard come loro miglior exploit negli U.S.A., “Feel It Again”; lo consiglio vivamente a chi vuole approfondire la conoscenza del gruppo. Si tratta davvero di AOR dell’età dell’oro, con un’intro d’atmosfera e conseguente strofa che ricorda i migliori Genesis di Phil Collins, mentre l’incisivo chorus, avvicina i Foreigner spronati dall’energia vocale di Lou Gramm.
Il terzo album degli Honeymoon, “Racing After Midnight” prodotto da un’altra stella, Ted Templeman di fama Montrose/Van Halen, è invece più orientato verso il tipico hard rock melodico. Indugiate nell’ascolto della loro compilation “The Singles”, che include anche “Lethal Weapon”, interpretata per il celebre film con Mel Gibson. Il gruppo resta tuttora attivo, ma il meglio del repertorio griffato Honeymoon Suite risale agli Ottanta. Proprio in dirittura di pubblicazione mi giunge la notizia di un nuovo album, “Alive” (di studio), programmato per fine febbraio 2024 su Frontiers. Sapranno smentire la mia conclusione di poc’anzi ?

MELVIN JAMES: “Passenger”

Tratta dall’album “The Passenger” (MCA, 1987)

Melvin chi? Presumo che possano domandarselo anche lettori esperti; eppure l’unico album di cui è titolare, “The Passenger”, può fregiarsi dello stesso produttore, Bill Szymczyk, di un best seller assoluto come “Hotel California” degli Eagles!
Melvin James (vero cognome: Douglas Veach) è un nativo di Des Moines, Yowa, proprio la città natale dei brutali Slipknot, ed iniziò giovanissimo come apprendista stregone delle magie di grandi chitarristi (Hendrix, Page, Johnny Winter) in un gruppo glam-rock, Dakota; con loro esibiva una versione di “Smoke On The Water”, ispirata all’idolo Blackmore. In omaggio ai Mott The Hoople, nome di spicco dell’epoca aurea glam, battezzò il suo nuovo gruppo Crash Street Kids; il trio di Minneapolis debuttava con l’album “Little Girls” nell’81, mescolando power-pop in stile The Knack con influenze britanniche anni ’60, spiccatamente The Who nel singolo dallo stesso titolo. Come figura preminente, James fu incoraggiato dall’interesse di varie majors a proporsi da solista, e le negoziazioni si conclusero a favore della MCA.

In copertina, a mio avviso bellissima, si staglia su una luminosa iridescenza la figura di Melvin che cammina sotto la pioggia in uno scenario notturno metropolitano. E’ la raffigurazione stessa del titolo-guida “Passenger”, il mio brano preferito a dispetto del singolo più fortunato, “Why Won’t You Stay” e dell’altrettanto contagioso “Loving You Is Strange”. Parla di un amore finito male, di senso d’abbandono ed incomunicabilità e la musica ne riflette mirabilmente l’atmosfera melanconica e di isolamento, con la chitarra pizzicata da Melvin che non esibisce nulla di virtuosistico, manifestando il suo gusto in un assolo conciso quanto espressivo, perfettamente al servizio della canzone. E quello struggente inciso, “We can’t talk about love…” irrorato sullo sfondo da un caldo, viscerale organo Hammond (affine al Benmont Tench della classicissima “Refugee”, di Tom Petty & The Heartbreakers), mette il punto esclamativo su un’indimenticabile operina musicale. Peccato che il fallimento del suo passaggio alla Geffen l’abbia poi emarginato dal grande business; dopo aver deposto le armi con il gruppo Planet Melvin, James ha approntato un suo studio di registrazione, dedicandosi al ruolo di produttore.
Inaspettatamente, proprio quest’anno “The Passenger” è stato ristampato dall’etichetta francese (prettamente heavy rock) Bad Reputation.

MELIDIAN: “Lost In The Wild”

Tratta dall’album “Lost In The Wild” (CBS Associated, 1989)

Il venerabile maxi-esperto AOR (e non solo), Derek Oliver, nel 2010 ha ristampato sulla sua etichetta specializzata Rock Candy l’unico album dei Melidian, “Lost In The Wild”, ma non si è trattato di una scelta opportunistica, perché già nella revisione 1991 dell’International Encyclopedia HR & HM, – condivisa con Tony Jasper – aveva elogiato il quintetto dello stato di New York come responsabile di “rock melodico grandioso ma ricco di forza”.
Idealmente, Melidian si collocavano al confine fra hard rock e AOR, reami frequentati da formazioni di vasta risonanza, dai precursori Boston e Foreigner alle stelle anni ’80 Bon Jovi e Bad English. Per loro un solo album-meteora, “Lost In The Wild”, quasi interamente composto dal leader, il biondo cantante e chitarrista Chris Cade, dedito anche a gran parte della produzione.

Spiace la rapida scomparsa dalle scene, perché il gruppo esibiva un potere d’atmosfera – pubblicizzato come “Metal dalla Quarta Dimensione” – ben superiore a più famosi concorrenti contemporanei, ed altrettanta forza d’urto. Il rapporto musica-immagine già si rispecchiava nell’attraente copertina di Stan Watts, dove una tromba d’aria faceva volteggiare esseri umani seminudi nel cielo plumbeo; un’immagine più lirica che drammatica, ma presagiva il clima musicale comunque inquietante della title-track. Chris Cade altro non faceva che raccontare il suo modo di “vivere il sogno rock’n’roll”, ma quegli incredibili echi vocali, il fraseggio rotolante della chitarra ed il soffuso background delle tastiere lasciavano immaginare qualcosa di più minaccioso: un refrain da cinque stelle in ogni caso, niente di meno.
Cosa può aver dunque congiurato al fine della loro sparizione? Forse in questo impegnativo primo assalto, il leader doveva farsi assistere da un produttore che ne limasse qualche asperità vocale e valorizzasse appieno il suono duro ma immaginifico dei suoi compagni. Comunque nessun estimatore di hard rock melodico affetto da nostalgia anni ’80 può astenersi dall’ascolto di “Lost In The Wild”.

PARADOX: "Another Day"

Tratta dall’album “Paradox” (MCA, 1989)

Assolutamente da non confondere con gli omonimi invasori teutonici a colpi di thrash-metal, questi Paradox sono invece figli della florida scena rock canadese degli Ottanta, ed hanno esordito nell’anno di grazia 1989, già da noi celebrato sul Blog come culla di memorabile rock melodico.
I Paradox del Quebec erano un quartetto di discendenza francese, inizialmente costituitosi come cover band e presieduto dai fratelli Cossette, Sylvain (voce) e Francois (chitarra). Scritturati dalla MCA, debuttavano con l’album “Paradox”, prodotto da Pierre Bazinet, già impegnato un anno prima con il debutto cult dei connazionali Boulevard (“BLVD.”) sempre su MCA. Come questi ultimi ed altri canadesi – Glass Tiger, Honeymoon Suite, Orphan etc. – i Paradox esibivano un’originale commistione di rock radiofonico e pop moderno, anche influenzato dalle sonorità della new wave inglese del decennio.

Non è di dominio pubblico che il repertorio dell’album sia stato composto dal gruppo in collaborazione con la talentosa cantante Sass Jordan, che l’anno precedente aveva esordito con il lodevole album “Tell Somebody”, incline verso l’AOR, prima di orientarsi verso il blues-rock. Sass è ancora molto apprezzata, infatti su YouTube potete scovare un filmato dov’è invitata in scena dai Foo Fighters durante un loro concerto.
Il primo singolo dei Paradox, “Waterline”, ha raggiunto una miglior posizione nella classifica canadese, ma il secondo “Another Day” è a mio avviso splendido. Un esercizio di alta raffinatezza acustica, con qualche riff elettrico, accompagnato da una sezione di violini (nel video suonati da ragazze); non trovo migliori parole che immaginarla come un’escursione di Paul McCartney nell’AOR. La voce di Cossette infatti emula quella del divino Beatle, e la similitudine non è azzardata, poiché molti artisti classici (da Cher a Don Henley) si sono cimentati in “fughe” nel rock melodico. Il gioiello “Another Day” resta il miglior testamento possibile di un gruppo svanito dopo il secondo album “Obvious Puzzle” (1991). Sylvain ha scelto di dedicarsi a canzoni in lingua francese varando una carriera solista e “rinnegando” il pop-rock sofisticato dei Paradox.

WALK ON FIRE: “Blind Faith”

Tratta dall’album “Blind Faith” (UNI-MCA,1989)

Walk On Fire sono stati una delle grandi speranze infrante nel proporre un’alternativa inglese allo strapotere dell’AOR americano.
Scritturati da UNI, un marchio della MCA, hanno registrato l’album d’esordio “Blind Faith” nel celebre studio del Castello di Manor (Oxford), salito agli onori delle cronache per aver dato i natali all’epocale “Tubular Bells” di Mike Oldfield. Incaricato della produzione era un nome eminente, Walter Turbitt, famoso per aver esercitato lo stesso ruolo con i Cars.
Walk On Fire erano stati fondati nell’87 dal vocalist scozzese Alan King e dal tastierista David Cairns, già membro dei londinesi Secret Affair. Il brano che dà il titolo all’album, “Blind Faith” è un classico AOR a 24 carati, con un arrangiamento che avvicina spettacolari effetti di produzione di Trevor Horn per gli Yes e per i Frankie Goes To Hollywood di “Welcome To The Pleasure Dome”.

La voce di King, a tratti accompagnato da un coro soul femminile, è ricca di pathos; il testo non è esplicito, ma a giudicare dal video, non intona cantici sacri ma smaschera l’inganno dei falsi predicatori pronti ad arricchirsi a danno di devoti animati da “fede cieca”. Un tema particolarmente dibattuto in America, che indirizzava esplicitamente Walk On Fire verso quel mercato. Detto che il livello generale dell’album non compete con il suo apogeo, ma è comunque una delizia per fans del rock melodico, la spesso fatale MCA decise di sbarazzarsi del quartetto britannico nonostante vendite incoraggianti proprio negli U.S.A. (e concerti con Foreigner e Ratt, fra gli altri).
Il gruppo si sciolse ed Alan King si segnalò come principale protagonista (nel ruolo del gladiatore romano) di “Spartacus”, il musical di Jeff Wayne che contemplava la partecipazione di stelle hollywoodiane quali Anthony Hopkins e Catherine Zeta-Jones, oltre all’ex-Marillion Fish. Wayne si era imposto con l’acclamata versione musicale di “The War Of The Worlds”, famoso racconto e film sci-fi sull’invasione della terra da parte dei Marziani. Anni dopo, Walk On Fire realizzeranno un come-back strettamente per conoscitori, “Mind Over Matter” (2017) per l’etichetta specializzata Escape.

WHITE HEART: “Let The Kingom Come”

Tratta dall’album: “Freedom” (Sparrow, 1989)

la Christian Music rappresenta tuttora un movimento di rilievo negli U.S.A., professata anche da gruppi rock di tendenza “moderna”, senza dimenticare che durante un tour italiano, i Metallica assistettero ad una messa in Vaticano (notizia riportata dal “Corriere Della Sera”). Nell’epoca di transizione fra anni ’80 e la decade successiva, particolarmente rilevante era il fenomeno dell’AOR d’ispirazione mistica, sebbene la formazione trainante nel “divulgare la parola di Dio” restavano gli Stryper, di tendenza più heavy.
Era comunque inevitabile che allora, il nostro “Paradiso” (alludo alla rubrica A.O.R. Heaven su Metal Shock!) dovesse fare i conti con quello “praticante”, rappresentato dal rock melodico cristiano. Quasi sempre legate ad etichette/espressione della fede religiosa, erano numerose le formazioni di quest’ambito degne di menzione: fra le punte dell’iceberg: Petra, Mastedon, Idle Cure, Jag, Liaison ed ancora, artisti titolari di gruppi oppure solisti, Geoff Moore & The Distance, Mark Pogue & The Fortress, Rick Cua e Margaret Becker.

Oggi vogliamo render gloria ai White Heart, che più di altri si sono distinti negli 80s proseguendo imperterriti fino ai giorni nostri, approdando nella Hall Of Fame della musica cristiana nel 2010. Alle origini (1982), oltre ai perduranti membri fondatori Billy Smiley e Mark Gersmehl, figuravano anche i fratelli Dann e David Huff, che ricordiamo principalmente come colonne dei Giant. Solo con il quarto album “Don’t Wait For The Movie” (1986), White Heart approfittavano del successo dell’AOR per guadagnarsi un seguito presso un pubblico globale, meritandosi il titolo di “risposta cristiana ai Toto”, in qualità di musicisti estremamente tecnici ma anche capaci di esplorare spazi creativi avventurosi. La loro parabola nel decennio giungeva idealmente al culmine con l’album dell’89 “Freedom”, fino a quel punto dotato della miglior produzione.
Vi figurava un brano di gran fascino e dal messaggio esplicito, “Let The Kingdom Come”, introdotto da un inusitato riff circolare ed effetti speciali di chitarra che sottolineano la drammatica interpretazione vocale, fino all’inesorabile crescendo nel chorus, scandito da tastiere ultra-pomp. Roba da far convertire al gaudium magnum del misticismo AOR anche gli “infedeli” che amano queste sontuose sonorità!

14 Commenti

  • Roberto Torasso ha detto:

    Ciao Beppe, naturalmente anche se lo hai precisato che non è riferito alla sezione tematica del caro vecchio MS anche io ricordo con piacere quella rubrica dove hai trattato nomi e dischi che ho scoperto e amato come Arcangel,Trillion,White Heart,Jay Aaron o 8084 p.e….tutti nomi cui i prodotti non erano di facile reperibilità ,almeno dalle mie parti,a dimostrazione che comunque l’A.o.r. e il Rock melodico ha avuto un ristretto campo di apprezzamento supportato da pochi appassionati che hanno avuto te come guida nella sua divulgazione…in quegli anni altre tendenze per lo più oltranzistiche nei suoni hanno attecchito, e non nego di esserne anche io coinvolto,ma grazie al tuo appassionato contributo ho imparato ad apprezzare quel suono che molto spesso mi ha portato a considerare che è più difficile costruire una melodia, un’atmosfera,un suono elegante ed emozionale senza essere banale e scontato che un riff sparato,una ritmica incessante e un suono che invita allo scuotimento fisico come molto banale metal di allora e di oggi…
    Colgo l’occasione per augurare a tutti buone feste e che la musica sia sempre il collante per unire passioni,pensieri e persone…

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Roberto, mi fa davvero piacere che il mio operato sia servito ad appassionati ormai di lunga data come te nell’avvicinare un genere tutt’altro che semplicistico come l’AOR. Tutti abbiamo amato le “bordate” di chitarra ed i ritmi pesanti, ma come hai scritto tu, ci sono altri talenti che contano, senza necessariamente considerare quali siano i migliori. La buona musica é sempre ben accetta, poi dipende dalle inclinazioni personali. Grazie degli auguri che ricambio, ed anche della considerazione finale sulla musica che deve unire e non dividere.

  • Lorenzo ha detto:

    Buongiorno Beppe.
    Inutile disquisire sulla qualità – siderale – di questa suggestiva retrospettiva selezionata da Beppe Riva, rifacendosi addirittura all’indimenticabile rubrica AOR HEAVEN su MS. Purtroppo feci a tempo, all’epoca, ad acquistare solo alcuni numeri di quella rivista (per motivi anagrafici), che in quel periodo era veramente una sorta di oasi musicali per appassionati. Purtroppo i vari e successivi cambi di redazione fecero variare di volta in volta l’orientamento della rivista stessa, ma questa è un’altra storia.
    Personalmente sono lieto di annoverare nella mia collezione buona parte dei titoli citati; purtroppo mi mancano Walk on Fire, Paradox e Melvin James. Non si può comunque fare a meno di sottolineare la magnificenza di un disco come quello degli I-TEN, una gemma solitaria e insuperabile, che sottolinea per l’ennesima volta quanto segue: per fare l’AOR ci vogliono grandi compositori, grandi musicisti e cantanti, studi prenotati per mesi, produttori e tecnici di grido. Tutte cose che si potevano concretizzare al più alto livello negli anni ‘80 americani, con notevoli e numerose eccezioni provenienti dal Canada, e molto più raramente dal Regno Unito; purtroppo è una “equazione” che ad oggi non si può più replicare, e i motivi li hai spiegati tu, Beppe, in modo incontestabile.
    Da un punto di vista, se vogliamo, più tecnico, è interessante notare che i dischi citati sono inquadrabili nel genere AOR nella sua accezione più incontaminata; niente class metal, niente melodic e/o hard rock. Se però andiamo a considerarli in funzione dell’anno in cui sono stati pubblicati, notiamo che l’AOR prodotto da inizio anni ‘80 fino a metà circa del decennio è tendenzialmente più soft, con le chitarre che spesso viaggiano appaiate alle tastiere, pur rimanendo incontestabilmente nell’ambito del rock. I dischi pubblicati da metà decennio fino al 1991 (anno in cui si celebrò il de profundis del genere AOR), hanno quasi sempre un appeal più aggressivo. Quantomeno, questa è la mia impressione da modesto ascoltatore e collezionista.
    Rinnovo i saluti e gli auguri a te e a tutto il blog.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Lorenzo, ti sei impegnato in una lunga e ben mirata impressione, che non è “modesta”. Tengo a precisare (se non è chiaro) che l’articolo in questione non è una revisione di stralci di “AOR Heaven”, a differenza delle “Shock Relics rivisitate”, ma é solo ispirato a quella rubrica e scritto ex novo per l’occasione. Osservi giustamente che ho voluto puntare su materiale “prettamente AOR” e non hard rock. Il gruppo più di confine presentato sono i Melidian, ma in particolare la title-track è molto d’atmosfera. Sull’evoluzione che citi dell’AOR, da matrici più soft a tendere verso l’heavy con il passare degli anni, in molti casi è vero; però le generalizzazioni si prestano sempre ad essere discusse, i casi sono molteplici. Per quanto riguarda gli i-Ten, anche tu condividi il parere di molti appassionati (che ho citato nel capitolo dedicato), giudicandolo un gran classico del genere. Grazie davvero ed auguri per le imminenti festività.

  • Paolo ha detto:

    Sempre preziosi i tuoi interventi Beppe! Di quelli anni, mi ricordo anche, sempre credo grazie ad una tua segnalazione, John Kilzer. Forse più cantautore che a
    AOR. Memory in the making era stupenda! Aspettiamo una tua top lista del 2023. Grazie e augurock di buone feste.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Paolo, John Kilzer era certamente un cantautore di stampo AOR, come i numerosi sulla scia del Bryan Adams di “Reckless”. “Memory In The Making” l’avevo sicuramente trattato, è un disco splendido da riascoltare periodicamente! Il secondo album era più oscuro e meno attraente, John combatteva i propri fantasmi personali con l’abuso di alcol e sostanze, giungendo tragicamente a togliersi la vita nel 2019. RIP. Grazie anche di averlo ricordato, e buone feste a te!

      • Luca ha detto:

        Ciao a tutti,
        il pezzo è proprio bello: va a rinfocolare gemme ed episodi oscuri (ai più) e ringrazio Paolo per il riferimento ad un artista che poteva essere grande, John Kilzer. Scrissi una modesta recensione per il suo ultimo disco su RootsHighway.it, scoprendo tristemente a fine anno del suo suicidio. Era fra quei cantautori “aorrizati” come Dan Lucas che oggi sono in ombra nella visione sul periodo. Chissà quanti riferimenti potresti darci Beppe…!
        In ogni caso, buon Natale a tutti!

        • Beppe Riva ha detto:

          Ciao Luca, grazie dell’apprezzamento su John Kilzer, che merita assolutamente di essere ricordato, e mi vengono in mente altri cantautori “Aorrizzati”, per usare un tuo termine, che potremmo trattare in seguito. Effettivamente queste rassegne danno lo spunto per riscoprire talenti finiti ormai in ombra, ed io stesso mi domando: “peccato non aver scritto di … “.
          Però è inevitabile, un articolo ha i suoi limiti, a meno di fare elenchi di nomi senza approfondimento che forse, rischiano di essere impersonali. Vedremo prossimamente! Intanto, ancora buone feste a te e a tutti i lettori.

  • Fabio Zampolini ha detto:

    Ah AOR Heaven! Quanti ricordi Beppe! Come Alessandro reputo, ovviamente, i Big ’80 inimitabili; ho i dischi da te menzionati con una particolare predilezione per i brani di Tane’ Cain ( se non erro questa recensita all’epoca di Rockerilla ), I-Ten, Zappacosta e Honeymoon Suite. Ultimamente sto riascoltando Zebra ( 3V ) e Cannata, altri nomi illustri che tu ben conosci. Colgo l’occasione per augurarti Buone Feste!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Fabio, si, ho voluto riaprire uno spiraglio sul panorama (naturalmente più esteso) di “AOR Heaven” perché ha significato molto per me. Così come contano tanto i vostri ricordi sul mio operato, insomma, la “memoria storica” dei lettori, anche di quelli da tempo attivi nel campo come te e che riconoscono ciò che è stato. Esatto, l’album “Tanè Cain”, essendo dell’82 è stato recensito su Rockerilla, perché il n.1 di Metal Shock è dell’aprile ’87. Certamente c’era ampia scelta per la rassegna, quella effettuata è dettata solo da motivi di “varietà” delle proposte. I nomi che stai riascoltando potevano chiaramente ben figurare. Buone feste a te e grazie!

  • angius francesco ha detto:

    Incredibile, ancora spazio per l’AOR? Meraviglioso! Ho amato e amo questa forma musicale da sempre e malgrado gli anta anni continuo a seguirla. Conoscevo molti gruppi musicali qui riportati grazie alle tue recensioni e posseggo i vinili che ha mirabilmente riesumato, ma mi ero perso i WHITE HEART, MELVIN JAMES e TANE’ CAIN. Correrò ai ripari viste le tue buone critiche. Un grosso ringraziamento come sempre per l’opera di recupero di opere molto belle ma che in quei periodi non hanno avuto la risonanza che meritavano da noi. Spero in futuro altre ri-scoperte! Il regalo per Natale ce lo hai fatti. Si ringrazia!!!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Francesco, ogni tanto mi piace indugiare su un passato che non è certo morto per quello che ci ha fatto provare, e in queste occasioni ci metto anche qualcosa che ai tempi non avevo trattato, perché il lavoro da fare era consistente. Naturalmente fa piacere il consenso dei lettori, per me il vostro “regalo di Natale” è quello, quindi è reciproco. Di Melvin e Tanè ci sono ristampe recenti, quindi non avrai problemi, comunque sul web si trova tutto, anche a prezzi favorevoli. Molte grazie.

  • Alessandro Ariatti ha detto:

    Un bel regalo di Natale per chi, come me, ha ancora nel cuore in quegli anni indimenticabili. Ciò non significa chiudersi alle novità più interessanti, ci mancherebbe: tuttavia, per quanto mi riguarda, il paragone a livello di songwriting, produzione ed esecuzione degli 80’s con gli standard attuali è letteralmente improponibile. Ovviamente in campo melodic rock/AOR la differenza risalta ancora di più per quelle “over-production” che ti facevano toccare il cielo con un dito, come giustamente sostiene anche James Christian. Tuttavia il discorso può essere allargato tranquillamente anche per il metal più classico.
    Tanti auguri, Beppe!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Alessandro. Cos’altro aggiungere? Condivido in toto (non sto parlando del grande gruppo…appunto AOR!) le tue argomentazioni. Grazie del supporto e tanti auguri anche a te!

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