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ALBUM & CD

Il mondo delle cover

Di 24 Dicembre 20224 Commenti

Amare le cover significa anche approfondire la conoscenza dei grandi brani originali.

Ho un paio di amici che quando capita mi sfottono. Mi spiego meglio : due appassionati, che scrivono e che quando lo fanno sono pure bravi, perché scrivere bene non è cosa da tutti, anzi. Però, da quando ho modificato a mio piacere una poco nota affermazione data nel corso di una intervista al titolare della Marriott Hotel, ogni tanto mi citano prendendomi in giro.

Temo per voi di averlo già detto, ma mi ripeterò in caso vi foste persi le puntate precedenti… al “Signor Marriott” chiesero come fosse possibile non sbagliare mai una struttura alberghiera che facesse capo a lui. Il gentiluomo rispose così : “Ci sono tre elementi che non devono mancare al momento di scegliere di aprire un nuovo albergo : il posto, il posto ed il posto!”.

Ecco, letta questa intervista tempo addietro, la adattai alle mie necessità. Così iniziai a sostenere che i tre elementi che possono fare grande e immortale un gruppo o un artista sono “I pezzi, i pezzi e i pezzi!”. La cosa deve essere piaciuta perché non solo i miei due amici citano la frase scherzandoci su, ma anche sedicenti “divulgatori musicali”, uno in particolare, l’hanno fatta propria, contando sul fatto che non tutti leggano tutto ma soprattutto che credano possibile che più soggetti possano modificare una citazione così particolare avocandone a sé la fantasia di averla creata. Mi fa piacere avere lettori inattesi e timidi, così affezionati e appassionati al punto di innamorarsi di certe mie banali uscite; bello sarebbe se me ne riconoscessero la paternità. In fondo si tratta di semplici osservazioni che possono facilmente diventare di uso comune, anche se magari non speculare dato che una delle basi della correttezza professionale sta o starebbe nella citazione della fonte e non nella appropriazione della medesima… ma a noi che ci frega in questo caso ?

Semplice : avrei ancora una volta citato la modificata frase per giustificare le mie considerazioni. Nella scelta di eseguire un brano altrui credo che sussistano diverse circostanze, una delle quali non può che non essere la grandezza del brano scelto, la facoltà di raggiungere quante più persone mettendole d’accordo sulla forza di quella musica, di quel testo.

Ditemi la verità : quanti gruppi o artisti avete scoperto nel corso della vostra passione musicale solo perché qualcuno ne aveva proposto una sua versione ? E quante volte avete scelto di approfondire meglio la conoscenza dell’autore originale di un brano solo perché quel pezzo vi aveva emozionato ? A me è successo molte volte.

Certamente, avevo spazio nella mia teca per Dylan, ma non mi sarei mai preso una sbandata durata fino a Saved se solo non avessi amato alla follia la Madre di tutte le Cover, quella All Along the Watchtower eseguita da Hendrix. E quanti musicisti sono stati indotti, se non costretti, a cimentarsi con il brano di Dylan se non fosse esistita la incredibile versione di Jimi ? Probabilmente il pezzo sarebbe rimasto una breve cosa acustica all’interno di John Wesley Harding.

Quanti di voi non avevano mai avuto idea di chi fossero The Kinks finché Eddie non rese loro omaggio con la sua devastante You Really Got Me ? Avreste mai scoperto senza i Van Halen che Dave Davies era stato un eccellente creatore di riff ?

Perché la verità è che se eseguire un brano altrui… fare una “cover version” come dicono gli anglosassoni… è un omaggio all’autore originale, è anche vero che amplificare i prodotti di un dato artista è consacrarne letteralmente l’arte. Ho una passione per i dischi di tributo, lo ammetto. Mi piace ascoltare brani senza tempo eseguiti dagli artisti più improbabili, amo cercare di capire se e quanto la loro versione di un classico sia stata dettata dal cuore o dal semplice coinvolgimento di chi ha assemblato quel tributo. Non finisco, infine, mai di stupirmi quando inciampo dentro a un prodotto ben riuscito, a una selezione non casuale o “dovuta” di brani altrui. Amo e apprezzo profondamente l’atteggiamento di certi artisti nei confronti della musica altrui; quando sento un approccio “da fan” pur provenendo da un musicista, mi appassiono e faccio tanto di cappello… non ho difficoltà ad ammettere che certe cover siano se non all’altezza, spesso anche migliori dell’originale.

Ecco perché nei miei scaffali c’è una lunga fila di album di tributo che ogni tanto mi piace riprendere e ascoltare, anche confrontandoli con gli originali. E poco importa se gli originali siano ben fissati nella mia mente : se si ama la Musica, ogni ascolto attento ti può donare nuove emozioni, ti può far apprezzare dettagli sfuggiti per anni. Un po’ come mi è accaduto quando ho avuto modo di ascoltare chi aveva un approccio decisamente diverso dal mio e mi faceva notare sfumature che a me erano sempre sfuggite solo perché il mio punto di ascolto era diverso dal mio interlocutore. Alcune volte sono stati amici musicisti, altre appassionati come me che semplicemente mi raccontavano il loro punto di vista, altre…purtroppo poche… erano stati grandi personaggi in vena di raccontare e raccontarsi. Ne ho fissati in mente alcuni, tanto rare erano state quelle occasioni, e magari un giorno proverò a sforzarmi di ricordare per voi le loro parole.

Oggi, come per caso, ho davanti a me una quindicina di dischi che mi ero preparato per l’ascolto “in viaggio”. Selezioni di importanti case discografiche che, davanti a una ricorrenza o una necessità commerciale, avevano scelto di riunire nomi importanti per omaggiarne altri altrettanto importanti.

Un divertimento, per me vi giuro, ascoltarmi quei dischi in sequenza senza ricordare esattamente che brano sarebbe uscito dalle portiere della mia auto.

E dato che ho la ferma convinzione che solo… i pezzi, i pezzi e i pezzi… rendano immortale un artista, non è un caso che i nomi dei Tribute albums fossero tutti dedicati a soggetti del calibro di Jimi Hendrix, Stevie Ray Vaughan, Lowell George, gli Skynyrd, Gram Parsons, gli Zeppelin, i Tull, i Sabbath…più un cofanetto particolare di cui vi dirò a breve.

E poi, per dirla proprio tutta, a me ascoltare cover mi spinge ad apprezzare ancora di più l’autore originale, a comprenderne le mille gemme nascoste andando oltre tutto quello che avevo appreso prima, perché se grandi interpreti hanno scelto di mettere la propria arte a confronto di altra altrettanto grande, significa che si è di fronte a musica senza tempo, che le generazioni attente sapranno assaporare tra cento anni. Perché tributare un onore a un grande autore significa davvero prolungare nel tempo e nello spazio la sua musica e questo è un pensiero che mi fa centellinare ogni singolo ascolto della “mia” musica.

Poniamo ad esempio di essere seduti davanti alle mie Klipsh mentre la musica del cd che esce dalle casse è Rock and Roll Doctor, il tributo a Lowell George. Facile dire che i Little Feat siano stati interpreti unici di un suono che, in fondo, non è solo sudista, non è semplice rock and roll, non è funky, non è la cosiddetta Americana… sono i Feat, autori di un live che resterà uno dei più impressionanti del secolo scorso nonostante le polemiche sui ritocchi operati in studio; un disco che si è meritato un cofanetto di otto cd uscito di recente e contenente altri tre concerti ad uno dei quali, al Rainbow, erano presenti i Rolling Stones al completo in platea data la loro ammirazione per il gruppo di George.

Ecco, ascoltare Taj Mahal interpretare Feats don’t fail me now, oppure Allen Toussant, Randy Newman, Jackson Browne, Eddie Money, Chris Hillman e altri dare nuove note e arrangiamenti su classici di cui ho già la mente piena, fa delle canzoni di Lowell George un pezzo di storia.

Jimi Hendrix è “La Storia”. Lui era così schivo e insicuro delle sue composizioni da temere il confronto con i grandi dell’epoca. Di Bob Dylan scelse di interpretare quattro canzoni, pensando che le sue fossero di livello inferiore. Non ha vissuto a sufficienza per vedere un intero mondo musicale proliferare e crescere con il suo fantasma lì a perenne comparazione, per sentire milioni di chitarristi sperare di lasciare un centesimo del segno indelebile che lui ha lasciato sul rock. Jimi gode di svariati tribute album, due dei quali meritevoli non solo di ascolto ma di riflessione. Stone Free vede una armata eterogenea che va dai Cure agli Spin Doctors, da Clapton e Body Count, da Slash e Rodgers ai Living Colour rivedere la sua musica, consci di scalare l’Himalaia con le sole mani…eppure il risultato è affascinante, in taluni casi sorprendente.

Così come sorprendente è In From The Storm, altro tributo dove Sting, Santana, McLaughlin, Lukather, Robben Ford, Steve Vai, Stanley Clarke e un’altra dozzina di musicisti spiegano i propri mezzi inchinandosi di fronte a canzoni che oggi comprendiamo essere senza tempo e che, magari, avevamo creduto secondarie. Il disco, prodotto da Eddie Kramer ed eseguito con la London Metropolitan Orchestra aiuta ad approfondire la conoscenza di altre colorazioni che erano rimaste nascoste.

Dylan e Cohen sono due poeti che scelsero di fare musica immensa. Tanto pacato e conscio dei suoi limiti l’uno quanto sfrontato e irritante l’altro, due artisti che hanno inventato una nuova metrica per i testi di musica popolare influenzandone l’evoluzione. E mentre Dylan, anche per chi non ne ha mai sopportato la musica è comunque estremamente popolare, almeno nei suoi classici, sono certo che plotoni di fruitori di musica hanno scoperto Cohen attraverso le varie cover della sua Hallelujah… magari non afferrandone neppure il contenuto, proprio come quel tal prete che se la cantava in chiesa convinto che fosse un brano in onore del Signore. Possedere I Shall Be Unreleased , tributo alle canzoni di Dylan oppure Tower of Songs, tributo alla poesia di Cohen è necessario per chi voglia capire come altri guardino dentro al mondo di questi due mostri.

Ma anche i grandi del rock non sono stati dimenticati da questo genere di omaggi… i Black Sabbath ebbero in Nativity in Black un signor tributo, con la crema dell’heavy rock a ricordare certi riff incredibilmente noti ma con una gemma inattesa nella Supernaut (…ecco cosa intendo per approfondire la bellezza già nota!) di un gruppo che ha prodotto solo quel singolo dove il riff di Iommi viene moltiplicato e elettrificato all’infinito… i Led Zeppelin godono di Encomium, un tributo dove non sono metal bands a confrontarsi con Il Mito, ma gruppi più pop-olari tra cui sorprendono i Duran Duran che rendono una Thank You di bella levatura o gli Stone Temple Pilots e i Blind Melon che offrono una visione grunge della più grande rock band di tutti i tempi !

E se gli ZZ Top o gli Skynyrd godono di un trattamento sudista dei loro brani (…il tributo dei ZZ è da avere assolutamente tanto elevata è la qualità delle esecuzioni), Stevie Ray Vaughan e Cream vengono omaggiati dalla serie “L.A Blues authority” dove quasi tutti i grandi solisti degli anni 80/90 si tuffano in interminabili solo per dare una spolverata di suono più attuale, per l’epoca, a cose e sonorità più prossime ai sessanta e settanta. Tutto molto godibile.

Potremmo andare avanti per giorni, solo mantenendo il timore su questo genere di prodotti, divertentissimi e godibili, a mio parere, ma voglio solo stimolare la vostra eventuale ricerca del tributo al proprio artista più amato, dandovi notizia di un quadruplo album davvero inconsueto.

Nel 1990 la Elektra, importante etichetta statunitense a distribuzione e proprietà Warner, compiva 40 anni. Molta storia della musica che amiamo è stata distribuita e prodotta da quella casa discografica; vi ricordo solo una manciata di nomi, giusto per farvi capire : The Doors, MC5, Love, Eagles, Television, The Cars, Dylan, Queen, J. Browne, The Stooges… solo per restare negli anni…”andati”.

Per celebrare i primi quarant’anni di quella etichetta, a Lenny Kaye – giornalista, produttore e cultore di musica cui si devono i famosi Nuggets, le raccolte di rock dei sessanta e chitarrista con Patti Smith – venne delegato il compito di dare seguito a una quarantina di classici con altrettante cover eseguite da artisti e gruppi della “nuova” Elektra.

Fu così che nacque Rubàiyàt cofanetto contenente due cd doppi, uno con gli originali ed uno con The Cure, Pixies, The Big F, Georgia Satellites, Metallica e decine di altri a reinterpretare i classici della prima ondata dell’etichetta. Ascoltare, come esempio, la profonda crepa che distingue la Stone Cold Crazy dei Queen dalla versione sanguinante dei Metallica varrebbe per me la ricerca di un cofanetto che non so quanto possa essere, sinceramente, reperibile oggi.

“Cosa vorrei che restasse di me dopo che me ne fossi andato ? – ebbe a dire Zappa nel suo ultimo anno di vita – Nulla, non resterà nulla…non mi interessa essere ricordato, vorrei solo che suonassero la mia musica.”. Ascoltare cover di brani di gruppi e artisti anche non più presenti o in attività è perpetrarne l’Arte. Con la A maiuscola. Fatelo, se vi va.

4 Commenti

  • Alessio ha detto:

    Zappa credo che potesse intendere anche semplicemente suonare con lo stereo, i dischi insomma, a casa, nei locali (i dj esistono apposta, non servono tributi e cover band, che siano di professionisti o meno, che gli stessi abbiano anche band inedite o no, quando scimmiottano rimane inutile o disastroso, soprattutto con gente particolarissima come Zappa), cioè non dimenticare la sua arte, le che che aveva inciso, non che intendesse che desiderava che altri musicisti o tributi e cover band suonassero la sua musica, prendendosi applausi e seguito non propri quindi ma riflessi, dovuti a cosa e a chi suoni.

    Riguardo tributi e cover bands, che poi sono la stessa cosa sostanzialmente, fanno solo brani di altri e live (perché almeno ad incidere anche dischi sempre solo con roba altrui, lo trovano per fortuna ridicolo e patetico anche loro e quindi evitano di solito), e cambia soltanto che i tributi si dedicano ad una sola band, spesso imitandone pateticamente anche il look – tipo pelati che si mettono una parrucca simile ai capelli del componente originale relativo – mentre le cover band spaziano tra diversi nomi o anche generi a volte, ecco cosa ne penso, con parte mia e parte citazione di una pagina di un tizio che c’era anni fa e ora non più esistente, era una specie di “manifesto” o “FAQ” della pagina per rispondere a cose ricorrenti degli interessati o di chi li difendeva. Ma alcune cose secondo me, soprattutto quando uno non personalizza per nulla i brani originali ma li scimmiotta e basta, e quindi sarà sempre una brutta copia ovviamente perché se tenti di fare fedelmente dei capolavori non puoi che fallire (non conta la mera tecnica, che chi coverizza può anche avere maggiore degli originali, ma conta altro, personalità, momento dell’incisione irripetibile, timbri unici dei cantanti di solito ecc.ecc.), valgono anche per chi ha una carriera propria ma più o meno spesso fa anche cover: https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=pfbid0km3vLWnYo2iA9BA24NgKnkNcnkQMqcmq81bvujyLUmkMTD8GJfwZ8mutCXWFu9sHl&id=106047861771144

    Metti tutti i 3 commenti in uno solo se puoi, grazie…

    • Giancarlo Trombetti ha detto:

      Alessio… farei più presto a farne un articolo… se mettessi i tuoi commenti tutti in sequenza 🙂

  • Alessio ha detto:

    Cohen io, come penso tanti altri, l’ho scoperto, per dire, non certo con cover ma dalla colonna sonora di “Cario Diario” di Moretti, il film del ’93 mi pare, in cui ad un certo punto nella colonna sonora c’è una parte di “I’m Your Man”, la title-track del disco dell’88. L’amico che mi aveva prestato la videocassetta che lui aveva registrato tempo prima da un passaggio televisivo del film mi pare, mi portò insieme anche il CD di Cohen, che se non ricordo male non conosceva già prima ma aveva scoperto e comprato a sua volta proprio incuriosito e affascinato da quello spezzone del brano nel film.

  • Alessio ha detto:

    Ritengo invece abbastanza inutili, tantopiù da lustri ormai (per il solito motivo dell’informazione immediata su tutto, ogni band, ascoltabile sul web ecc.), le cover, anche quando fatte occasionalmente in studio o live, di pezzi singoli o a volte addirittura interi dischi di cover, da chi comunque ha una carriera vera di solito, cioè fa brani propri ed è magari anche già ormai veterano, più o meno famoso e lo è diventato appunto per i suoi brani. Per non parlare di chi fa solo cover, spesso senza personalizzare nulla perché la gente a cui si rivolgono vuole lo scimmiottamento dell’originale nel modo più fedele possibile (e del resto difficilmente gente che non ha mai composto roba propria e sviluppato una personalità quindi più o meno accentuata, potrebbe sapere come rendere proprio un brano altrui), cioè intendo i cosiddetti tributi e cover bands, che per fortuna sono nella grandissima parte dei casi fenomeni underground o sub-underground, gruppini da pub insomma o localetti medio-piccoli o piccolissimi, ma non cambia che rimangano inutili, anzi dannosi, e la gente che le segue – magari solo quelle e gli originali storici/famosi preferiti, e mai qualche gruppo inedito underground e dintorni valido – è ancora peggio, finti appassionati di musica ignoranti, pigri, ridicoli.

    Io personalmente ripeto, non ho praticamente mai scoperto un gruppo perché un altro che conoscevo già, nuovo o giovane o a sua volta più o meno storico, ne aveva fatto una cover in un disco o in un concerto a cui ero, e credo valga per la maggior parte degli appassionati di ogni generazione.

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