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C'era una volta HARD & HEAVYReliquie PROG

Suoni dall’underground Rock-Blues…

Di 24 Dicembre 202210 Commenti

...alle pendici dell'Hard Rock e del Prog

Dopo l’esplosione del british blues, formazioni innovative decisero di sconcertare i puristi, plasmando il blues elettrico in hard rock, talvolta addentrandosi in esperimenti progressive.
Quando si pensa ai protagonisti dello scenario nella seconda metà degli anni ’60, c’è chi tende ad inquadrarli nell’ottica – conservativa – di proposte musicali irrigidite sulle canoniche dodici battute. In realtà l’underground di quell’epoca possedeva una forza vitale che andava ben oltre il semplice revival. Molti gruppi sorti dal boom del blues ad alto voltaggio, glorificato dal successo dei Cream, e da altre punte di diamante a nome Ten Years After, Taste, Free, Fleetwood Mac, Groundhogs, Chicken Shack, Savoy Brown, Ashkan, senza dimenticare l’adozione inglese del fenomeno Jimi Hendrix, contribuirono all’evoluzione del nascente hard rock; furono evidentemente i Led Zeppelin a rappresentare l’archetipo supremo e vincente di questa metamorfosi.
I nomi qui trattati, finiti nell’oblio per gran parte del pubblico, restano però testimonianze esemplari della versatilità di quell’ormai distante rock-arama.

STEAMHAMMER, montagne rocciose!

Fra i propulsori di questo storico passaggio di consegne sono da annoverare gli Steamhammer, un quintetto costituito a Worthing nel 1968. L’originale line-up comprende Kieran White (voce, armonica e chitarra acustica), Martin Pugh (chitarra solista), Martin Quittenton (chitarra ritmica), Steve Davy (basso) e Michael Rushton (percussioni).
La credenziali degli Steamhammer levitano sensibilmente quando il grande bluesman americano Freddie King, che durante i tour in Inghilterra si esibisce a fianco di musicisti britannici, li sceglie come sua backing band.
Un anno dopo la loro genesi avevano già realizzato due LP: il primo, “Steamhammer”, prendeva le mosse dai classici del blues, riproponendo ispirate versioni di “You’ll Never Know” di B.B. King, e della dilatata “Twenty-Four Hours” di Eddie Boyd. Una robusta composizione originale, “Junior’s Wailing”, diventerà in seguito un cavallo di battaglia live degli Status Quo, ben adattandosi ai loro schemi boogie. Fin dall’esordio, il gruppo è attento a non cadere nelle frasi più scontate, allargando i suoi modi espressivi nell’evocativo acid-rock di “Even The Clock”: vi recitano parti suggestive la liquida solista di Martin Pugh ed il flauto dell’ospite Harold McNair. Lungo analoghe coordinate si spingono brani dei primi due singoli, “Windmill” e “Autumn Song”. Dunque l’opera prima manifesta notevole freschezza e personalità, tutt’altro che riservata a soli adepti del blues.
Le vendite non sono però incoraggianti, ed il gruppo suscita maggior interesse per le lunghe esibizioni dal vivo, ricche di improvvisazioni strumentali. Rushton cede subito le armi all’ex-Sorrows, Mick Bradley; se ne va anche Quittenton, e contribuisce al successo della carriera solista di Rod Stewart, da coautore del singolo “Maggie May”, fra i più famosi d’inizio anni ’70; al suo posto non giunge un chitarrista, ma Steve Joiliffe (sassofono e flauto). Così il secondo album, “Steamhammer Mk II” (1969), è ancor più distante dagli standard del blues, a partire da “Supposed To Be Free”, diversificata dalle spinte jazz del sax di Joiliffe; Martin Pugh è sempre un protagonista di rilievo, come si evince dal suo superbo showcase acustico “Sunset Chase”. Se “Contemporary Chick Con Song” torna al classico boogie, Joiliffe si orienta verso atmosfere barocche suonando clavicembalo e flauto in “Turn Around”, e gli Steamhammer si confermano decisamente eclettici; esemplare il tour de force di “Another Travelling Tune”, introdotto dal flauto magico di Steve Joiliffe e dalla voce di Kieran White, che inscenano una fiabesca atmosfera Tull-esque, ampliata fino a 16 minuti rock di pregevole fattura.
Il gruppo è ormai un’attrazione dei festival all’aperto in Europa continentale ed in Scandinavia, ma continua ad esser ignorato in Inghilterra, e la casa discografica, CBS, lo abbandona al suo destino; ma i musicisti non demordono e sconfinano in Germania per incidere “Mountains” nell’estate 1970 con il quartetto composto da White, Pugh, Davy e dal drummer Mick Bradley, dove non trova spazio Joiliffe (in futuro suonerà con i Tangerine Dream!), forse troppo “destabilizzante” per la loro musica.
“Mountains” è specchio di un’originale concezione dell’heavy rock progressivo, che si manifesta subito nell’iniziale “I Wouldn’t Have Thought”, dove i bagliori elettrici delle chitarre creano melanconiche atmosfere ad ampio respiro melodico. Le successive “Riding On The L&N” e Hold That Train” sono registrate dal vivo; la prima concede molto al virtuosismo del bassista Steve Davy, poi sfocia in una dilatata sessione strumentale, dotata di feeling ed espressività, mentre “Train” si sviluppa su binari boogie, ma evadendo dalla prevedibilità di certi schemi. “Leader Of The Ring” risente del passato di White, che iniziò negli ambienti del folk inglese, mentre la title-track è un altro episodio hard-blues estremamente suggestivo, dov’è esplicita l’attenzione dei musicisti verso le scelte dei timbri e dei suoni.

A mio avviso “Mountains” rimane l’opera maestra degli Steamhammer, che cambieranno pelle nel successivo, sperimentale “Speech”. Minata dall’insuccesso della sua proposta, la formazione non andrà oltre: il terzo album è dunque il testamento degli originali Steamhammer, vittime del tramonto dei festival rock dopo la tragedia di Altamont, dove gli Hell’s Angels della security avevano ucciso un giovane di colore durante il concerto dei Rolling Stones.
A quel punto Martin Pugh rimane l’unico fondatore superstite nel trio che comprende anche Bradley ed il bassista Luis Cennamo (ex-Renaissance, Colosseum) e registra nell’inverno 1971 il capitolo finale degli Steamhammer, “Speech”. Si tratta di un disco non facile, di progressive-rock prevalentemente strumentale, che alterna flash tecnicistici a fasi sperimentali talvolta scomposte, specie nella suite “Penumbra”. Nel finale di “Telegram”, gli estimatori di Martin Pugh possono comunque ascoltarlo in un lungo e potente assolo. Il quarto album è senz’altro il più distante dal blues evoluto degli Steamhammer, ormai giunti alla fine della pista, inevitabile dopo la perdita di Mick Bradley, morto di leucemia. A quel punto Cennamo decide di riunirsi all’ex vocalist dei Yarbirds, Keith Relf, che aveva collaborato a “Speech” (e con un passato comune nei Renaissance), recando con sé Martin Pugh: da questa combinazione nasce l’hard rock estremamente originale dei grandi Armageddon (vedi “Heavy-Prog a 24 carati”, sul Blog da ottobre). Il cantante Kieran White, si ripresenterà invece nel 1975, con l’album solo “Open Door”.
Gli Steamhammer sono stati rifondati da Martin nel 2020 con un altro glorioso veterano, il bassista Pete Sears, ed un album dal titolo nostalgico, “Wailing Again”, uscito tre mesi fa.

FREEDOM: più di una parola...

Freedom è un gruppo ormai perso nell’abisso del tempo, eppur di significativi trascorsi; a sostegno di questa tesi giova ricordare che gli autorevoli Tony Jasper & Derek Oliver, nella loro “International Encyclopedia Of Hard Rock & Heavy Metal” qualificarono i Freedom come “fantastici blues rockers, in possesso di un suono di chitarra fra i migliori d’inizio Seventies”.
Il drummer Bobby Harrison ed il chitarrista Roy Royer fondarono i Freedom nell’estate 1967, addirittura dopo un compromesso legale che ricompensò lautamente la loro fuoriuscita dai Procol Harum, reduci dal gran successo del singolo “A Whiter Shade Of Whiter Of Pale”. I due non erano infatti graditi al resto del gruppo, per divergenze musicali.
Dopo un primo 45 giri, “Where Will You Be Tonight”/”Trying To Get A Glimpse Of You”, ben inserito nel movimento psichedelico, Freedom si impegnano nella colonna sonora di “Nerosubianco” (Black On White), film underground del celebre produttore italiano Dino De Laurentiis (e diretto da Tinto Brass!), pubblicata in Italia su Atlantic nel ’69. All’epoca di “NSB”, il quartetto originale includeva, oltre ai due ex-Procol Harum, il bassista Steve Shirley e l’organista Mike Lease: i musicisti apparvero anche nel film, con il corpo colorato in stile psichedelico. In sintonia con il singolo “Where Will You Be Tonight”, anche il sound di “Nerosubianco” illustrava una vena strumentale psych che riecheggia più dei lavori successivi i trascorsi con i Procol Harum. Esiste una ristampa del 2002 estesa a doppio LP su etichetta Moving Image Entertainment/Comet, per l’inserimento di versioni alternate di “The Better Side”, “The Butt Of Deception” e “Born Again”.
Successivamente alle registrazioni, Freedom accusano la dipartita di Royer e Lease; Harrison decide di orientarsi verso un sound decisamente più robusto ingaggiando l’ex-chitarrista dei Washington DC, Roger Saunders. Dallo stesso gruppo giunge il sostituto di Shirley, Walt Monaghan, e siccome il tastierista non viene più rimpiazzato, Freedom si trasforma in un power trio.
L’opera prima della rinnovata formazione, “At Last” viene pubblicata nel 1970 su etichetta Byg/Metronome, ma solo sul mercato tedesco e francese. Include numerose cover, ispirate alla black music e al pop inglese. Sul fronte blues, “Deep Down In The Bottom” di Howlin’ Wolf e “Built For Comfort” di Willie Dixon evidenziano la convincente adesione al modello dei Cream, mentre i rifacimenti di “Time Of The Season” degli Zombies e di “Cry Baby Cry” dei Beatles, con un delicato arrangiamento di mellotron, manifestano la volontà di non tagliare i ponti con la tradizione pop degli anni ’60. Le prime composizioni originali sono tutt’altro che incompiute, a partire da “Enchanted Wood”, sferzata da un vibrante assolo di Saunders, e dall’eccitante riff hard-blues di “Have Love Will Travel”.
Per esordire in patria devono attendere l’omonimo terzo album, prodotto da Roy Thomas Baker, destinato ad un futuro radioso alla corte dei Queen. “Freedom” (1970, Probe) è complessivamente la loro impresa più riuscita, senz’altro nell’equilibrio fra rock muscolare e qualità melodica. Il trascinante effetto psichedelico dalle rifrazioni elettro-acustiche di “Nobody” inaugura l’LP al meglio, irrorato dai cori (ai quali contribuiscono tutti i membri) che riecheggiano i Pretty Things, circa “SF Sorrow”. Un altro brano arioso e di rimarchevole impatto è “In Search Of Something”, mentre il titolo-manifesto “Freedom”, caratterizzato da un’intensa voce roca, ripropone il rock-blues più sanguigno che è nelle corde del trio, ma con spunti progressive. Infine l’accattivante singolo “Frustrated Woman” avrebbe ben figurato nella colonna sonora di “Blues Brothers”!
Il loro album più famoso è però il quarto “Through The Years” (1971), che inaugura il contratto Vertigo sulla scia di una crescente reputazione e attività live, anche da supporto a celebrità quali Emerson, Lake & Palmer, Black Sabbath, Jethro Tull.

Si tratta di un elettrizzante saggio power-blues che ben si presenta nell’iniziale “Freestone”, dove Saunders sovraincide le evoluzioni della solista sulla chitarra ritmica funky. La title-track, dalle pregevoli aperture melodiche, e la più serrata “London City”, non rinunciano però agli incalzanti assalti di chitarra che arroventano l’album, e solo una bella ballata pianistica si estranea dal concetto di base, “Thanks”, con reminiscenze country-rock e degli stessi Procol Harum.
I Freedom tornano alla formula four-piece nell’album che ne conclude la parabola, il quarto “Freedom Is More Than A Word” (Vertigo, 1972), che se la memoria non mi inganna – già, non sono io che “ricordo perfettamente”! – venne proposto come LP della settimana dalla rivista nazional-popolare Ciao 2001. Insieme ad Harrison e Saunders suonano Steve Jolly, ex-chitarrista dei Sam Apple Pie, ed il bassista Pete Dennis. “More Than A Word” è l’opera più matura e diversificata del gruppo, e la copertina espone, con il permesso dell’autore, la poesia di Laurence Craig-Green che dà il titolo al disco: in apertura i fraseggi rock di “Together” si spezzano per accogliere l’inatteso intervento del violino, poi i Freedom ripercorrono il filone heavy di “Through The Years” nel boogie di “Sweaty Feet” e nelle dilatate fasi strumentali di “Brainbox Jam”. Ad una travolgente cover di “Going Down” (più heavy della versione di Jeff Beck), fanno eco soluzioni dalla spiccata vena melodica: “Direction” è un brano d’atmosfera, impostato sulle armonie circolari del piano, “Dream” e “Ladybird” si distendono verso orizzonti nuovi grazie agli insoliti arrangiamenti orchestrali di Jim Gannon, proprio il genio incompreso dei Black Widow di “Sacrifice”. Ma il gruppo si scioglie subito dopo: Saunders registra un album solo, poi inizia una vita da avventuriero del rock, suonando fra gli altri con Kevin Ayers, Roger Glover e Gary Glitter. Bobby Harrison farà ancora parlare di sé con gli Snafu, formazione di hard melodico che rivela il futuro chitarrista dei Whitesnake, Micky Moody.

BAKERLOO, il blues della metropolitana

Quando i Black Sabbath si chiamavano Earth e si affacciavano sul palcoscenico dell’Henry’s Blueshouse, storico locale di Birmingham dove anche i Led Zeppelin fecero una delle prime apparizioni dal vivo, i loro maggiori concorrenti erano i Bakerloo, un potente trio guidato dal chitarrista Dave “Clem” Clempson, originario di Tamworth. Proprio i Bakerloo godevano all’epoca di maggiori credenziali per un’affermazione su vasta scala: era opinione diffusa che in un’Inghilterra disperatamente alla ricerca degli eredi dei Cream e di Jimi Hendrix Experience, lo stile più fluido di Clempson avrebbe avuto la meglio sulla durezza espressiva di Iommi, ipotesi poi smentita dal corso degli eventi. Curiosamente, entrambi i gruppi erano diretti dallo stesso manager, Jim Simpson, e vennero accomunati anche in un programma di concerti, chiamato “Big Bear Ffolly”, che comprendeva anche gli innovativi Tea And Symphony ed i Locomotive del tastierista Norman Haynes, dove aveva suonato lo stesso Simpson, trombettista di scuola jazz.
Il “tridente” fondato da Clempson agli albori del ’68 si chiamava inizialmente Bakerloo Blues Line (il nome di una fermata della metropolitana londinese…) e per qualche tempo si stabilizzò con il bassista Terry Poole ed il drummer John Hinch. Ebbero la chance di suonare in apertura dei Led Zeppelin, in occasione della loro “prima” al Marquee di Londra (18 ottobre 1968) e circa un mese dopo, di ripresentarsi nello stesso club da supporto ai Jethro Tull. Intrecci interessanti, alla luce dei futuri sviluppi… Infatti nell’unico album dei Bakerloo (abbreviarono il loro nome nel febbraio ’69) figura una “Bring It On Home” contemporanea del remake eseguito dal gruppo di Jimmy Page su “Led Zeppelin II” (novembre ’69) e l’adattamento di un’aria di Bach, che Clempson ed i suoi realizzarono anche come primo singolo (“Drivin’ Bachward”, luglio ’69) ma ben più celebre nella leggendaria rivisitazione dei Jethro Tull, “Bourée”, registrata nell’aprile dello stesso anno. Parrebbe scontato supporre che le versioni del trio siano “conseguenze” delle scelte dei gruppi più famosi, ma è provato che i primi rudimenti blues dei Bakerloo furono esercitati proprio sul repertorio di Muddy Waters, il venerabile bluesman ripetutamente “plagiato” dagli stessi Led Zep, e che Clempson si dedicò giovanissimo a studi di pianoforte e frequentò il Conservatorio, senza certamente ignorare J.S. Bach: tutto ciò potrebbe forse, ripeto forse, riscrivere la storia dei classici brani citati.

Quando Clempson, Terry Poole ed il nuovo drummer Keith Baker incisero l’omonimo “Bakerloo” con il produttore Gus Dudgeon (un nome legato ai fasti di Bowie ed Elton John), erano ancora senza contratto, ma con il profilarsi all’orizzonte della Harvest, succursale della EMI nell’arena prog-rock, la loro sorte sembrava volgere al meglio. Anche il repertorio dell’album risentiva dei tempi di trasformazione, palesando un superamento dei canoni ortodossi del blues attraverso le varianti hard rock e progressive sconfinante nel jazz.
Il brano iniziale “Big Bear Ffolly”, dedicato proprio all’omonimo tour, mostra un’identità non distante dagli squarci heavy-blues dei primi Sabbath (specie in “The Warning”), ma con un’atmosfera meno fosca e ritmi più elastici. Almeno nelle prime mosse, “Bring It On Home” è piuttosto simile, seppur inferiore, alla versione degli Zeppelin, mentre “Drivin’ Bachward” è ben differente dalla “Bourée” dei Tull, con un arrangiamento che pone in evidenza chitarra, clavicembalo (suonato da Clempson) e la tromba dell’ospite Jerry Salisbury. “Last Blues” è caratterizzato da una parte vocale molto spirituale e da un elettrizzante assolo che illustra oltre ogni dire il concetto di “chitarra superamplificata”. Grazie al gran talento del solista di Tamworth, “This Worried Feeling”, è degna del paragone con i classici live dei Cream, e l’incandescente bolgia elettrica della conclusiva “Son Of Moonshine” fa impallidire qualsiasi ipotesi stoner di più recenti natali.
Purtroppo la Harvest non si rivelerà per i Bakerloo il volano promozionale capace di portare in alto i grossi calibri Deep Purple e Pink Floyd, così i Bakerloo si sciolsero poche settimane dopo la pubblicazione del disco, minati da diatribe interne. Nei Seventies, Clempson sarà protagonista di un’attività incessante, unendosi ai Colosseum, agli Humble Pie ed ai Rough Diamond di Dave Byron. Negli anni ’90, si rifarà vivo suonando con Jack Bruce ed i redivivi Colosseum di John Hiseman. Nei Colosseum, orfani del grande batterista, Clem milita tuttora.

Clem Clempson: guitar hero!

KILLING FLOOR, dall'orbita di Urano

L’alta marea del british blues porta in superficie nel 1968 la formazione londinese Killing Floor, battezzata in omaggio ad un brano di Howlin’ Wolf: rapidamente cattura l’attenzione del produttore e manager John Edward, infatuato dal talento del chitarrista Mick Clarke, che paragona addirittura a Jimi Hendrix… Grazie ad Edward, il quintetto si esibisce da supporto a giovani leoni del rock-blues, Ten Years After e Chicken Shack, e viene scritturato dall’etichetta Spark, per la quale realizza l’omonimo debut-album. Nello stesso periodo, i Killing Floor hanno l’opportunità di suonare nel tour inglese del maestro americano Freddie King (idolo di Eric Clapton) accrescendo la loro fama. Il primo LP giunge però in ritardo rispetto al boom del blues inglese: nel 1969 l’attenzione generale si sta orientando verso le nuove tendenze hard rock e progressive, ed il disco non ottiene l’auspicato successo. Il gruppo appare però votato al rock-blues e al boogie con viscerale intensità: oltre alle innegabili doti di Mick Clarke, Bill Thorndycraft si spella le labbra sull’armonica ed è un vocalist efficace per quanto non soverchiamente originale, mentre Lou Martin è davvero un notevole pianista. La straripante versione di “Woman You Need Love” di Willie Dixon, (dalla quale ha tratto linfa vitale “Whole Lotta Love” dei Led Zeppelin) e “Nobody By My Side” esprimono vibrazioni di contagiosa energia; le escursioni nel rock’n’roll/boogie di “Try To Understand” sono stilisticamente ineccepibili, e Martin si concede una prova d’abilità personale in “Lou’s Blues”, dove anticipa la ben più famosa “Honky Tonk Train Blues” di Emerson. “Killing Floor” è dunque un eccitante album perfettamente inserito nell’ortodossia del suo genere, ma il successivo “Out Of Uranus” (1970), sarà animato da una più eclettica ispirazione heavy-prog.

I Killing Floor tornano infatti in studio con il produttore dei Troggs, Larry Page, a fianco del loro scopritore, il deejay John Edward, per realizzare il secondo LP che palesa spunti evolutivi rispetto al rock-blues delle origini. Ascoltando il singolo “Call For The Politicians”/”Acid Bean” (Penny Farthing, 1970) non si direbbe, poiché la facciata A è un anthem militante a ritmo di boogie, ma le prime mosse di “Out Of Uranus” manifestano davvero intenti di mutamento: la title-track è un hard rock dallo sferragliante divenire lisergico, e “Soon There Will Be Everything” si spinge ancor oltre, in un’atmosfera spaced-out sottolineata dal mellotron e da ipnotiche parti vocali, che addirittura evocano i Pink Floyd di “Saucerful Of Secrets”.
Anche il blues di “Lost Alone” risulta chiaramente alterato dalla lente psichedelica. Poi i venti di cambiamento cessano di spirare, e per il resto “Out Of Uranus” scaglia efficaci dardi rock-blues, fino al martellante finale di “Milkman”.
La carriera discografia del gruppo londinese però si ferma qui: il vocalist Bill Thorndycroft abbandona le scene, il bassista Stewart McDonald lascia i suoi sogni di gloria negli elusivi Peace di Paul Rodgers, mentre Lou Martin mette le sue tastiere al servizio di Rory Gallagher ed il chitarrista Mike Clarke fonda i Salt, pionieri del pub-rock. Sebbene in successivi rimaneggiamenti, facciano il loro ingresso musicisti di vaglia come Mick Hawksworth (Fuzzy Duck), Ray Owen (Juicy Lucy) e Rod De’Ath (Rory Gallagher), nel 1972 i membri superstiti confluiscono nei nuovi Toe Fat di Cliff Bennett. Per Killing Floor è la fine, eppure trent’anni dopo tornano in scena e nel 2022 celebrano persino il 20° anniversario della rifondazione, con altri due album che si aggiungono alla pur esigua discografia.

Da parte mia un caloroso augurio per le imminenti festività a tutti i lettori che ci hanno incoraggiato nel proseguire l’avventura di “Rock Around The Blog”. Grazie a tutti voi! 

10 Commenti

  • Lorenzo ha detto:

    Buonasera Beppe, questo tuo ennesimo prezioso articolo testimonia ancora una volta che non c’è limite al materiale di valore prodotto in quegli anni
    Materiale utilissimo per mantenere vivo l’interesse e la curiosità verso proposte che meritano una rivalutazione almeno postuma.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Lorenzo, hai ragione, “non c’è limite” alla meraviglia di quella produzione vintage, importante è accorgersene almeno in parte. Non molti forse ne sono interessati, anche perché gli anni passano ed i gusti delle generazioni successive si modificano. A proposito: The A&M CD Box Set 1970-1975 8CD degli HUMBLE PIE include i 7 album A&M, da “Humple Pie” a “Street Rats” (compreso il Live al Fillmore), più un ottavo CD di B-side e rarità. Grazie dell’attenzione verso il lato meno “frequentato” del Blog.

  • Paolo Rigoli ha detto:

    Puntare i riflettori anche e, oserei dire, soprattutto su gruppi pressoché sconosciuti è già di per se un’opera lodevole. Abbinata alla qualità della musica e della scrittura diventa un’opera essenziale e meritoria, che fa felici coloro che non vogliono percorrere solo i sentieri più battuti. Grazie Beppe perché riesci a catturare l’attenzione e spingere all’approfondimento. Sì, si può ancora fare, non molti ci credono, ma teniamoci stretti quei pochi. Buone Feste a te e a coloro a cui vuoi bene.

    • Beppe Riva ha detto:

      Caro Paolo, ti ringrazio per l’apprezzamento, ma ancor di più per la tua osservazione relativa a non percorrere “solo i sentieri più battuti” e che “si può ancora fare, non molti ci credono”. Tutto vero, infatti penso che bisogna pur esporsi e soprattutto esser coerenti con se’ stessi e le proprie passioni, comprese le meno popolari. Ricambio di cuore gli auguri. Ciao!

  • Alessandro Ariatti ha detto:

    Ciao Beppe. Come spesso accade, tiri fuori dal cilindro nomi di cui sono completamente a digiuno. Nonostante siano circa 40 anni che ti seguo! Leggendo l’articolo, credo che gli Steamhammer di Mountains siano il nome più appetibile per i miei gusti. Grazie per i tuoi continui input nell’allargare conoscenza e cultura musicale. Ne approfitto anche per augurarti buone feste, di cuore. Ciao!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Alessandro, grazie della tua costante presenza; mostrando attenzione, si incoraggia ad andare avanti. Quei gruppi hanno tutti valore, poi dipende dai gusti personali. Val la pena dare un ascolto su YT per verificare. Ringraziando, contraccambio con piacere gli auguri a te e ai tuoi cari.

  • stefano cesarini ha detto:

    Ciao Beppe tanti tanti auguri di buone feste a te e i tuoi cari

  • CLAUDIO bonsignori ha detto:

    21:14 del 24 dicembre….ho appena letto il tuo articolo Beppe, e come sempre, dai tempi epici di “Hard & Heavy” su Rockerilla finisco per acquistare quanto ‘suggerisci” nei tuoi articoli, da sempre, e da sempre MAI ho preso una sola.
    tu e il Gianca…..quanti vinili/cd mia avete fatto ascoltare…..ed e’ sempre un epifania (per restare in tema di feste)
    auguri di buon Natale e ci si rivede giovedi da Marco Garavelli
    Claudio

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Claudio, aver conquistato la fiducia di lettori “fedeli e attenti” (per citare Radio Lombardia dove trasmette Marco Garavelli, che opportunamente segnali) come nel tuo caso, fa sempre piacere. “Sole” spero di non averne mai rifilate, senz’altro tutti siamo incorsi in qualche caso di sopravvalutazione, ma fa parte dell’euforia del momento quando si recensisce un disco ascoltato con il dovuto entusiasmo. Entusiasmo che un tempo ci accompagnava anche di pari passo agli anni di miglior vena del rock, che non sono certo gli attuali. Grazie davvero dell’attenzione.

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