Oggi non ha molto senso parlare di sogno americano, in tempi di crisi internazionale e di declino dell’egemonia USA, sfidata dalla protervia tirannica del Cremlino e dal “nuovo impero” cinese, che addirittura spingono gli Stati Uniti all’isolazionismo, dando priorità assoluta alle prossime elezioni presidenziali.
Negli anni ’80, idealmente culminati nella caduta del muro di Berlino, sembrava ormai assicurata un’epoca di benessere dove la superpotenza americana, seppur ricorrendo nella storia del ‘900 all’uso della forza militare, si ergeva a garanzia di sicurezza e di stabilità a livello mondiale.
In un clima generalmente positivo, il successo dei Bon Jovi, uno dei più imponenti fenomeni rock di quegli anni – ancora immuni dall’avvento del gigantismo artificiale creato dai social media – dimostrava come il sogno americano fosse ancora d’attualità. Il capo carismatico del gruppo, Jon Bon Jovi, non ha mai smesso di crederci. In periodi comunque di recessione economica, il cantante del New Jersey ha costantemente inviato incoraggianti messaggi a un pubblico vastissimo: mai smettere di sperare, di sognare, mai arrendersi nel perseguire le proprie aspirazioni. E insistere fermamente in questa filosofia di vita ha dato ragione a Jon Bon Jovi, che ha finito per incarnare l’eroe positivo del rock, persino insensibile alla seduzione delle droghe, in contrasto con celebrità “socialmente pericolose” e inclini all’autodistruzione come il suo più credibile antagonista di allora, Axl Rose. Jon ha raccolto con innocenza e ferrea volontà l’eredità di Springsteen nella celebrazione di una classe lavoratrice che lotta per l’esistenza, rappresentando il vero cuore dell’America, mentre sotto il profilo musicale si è mosso su differenti livelli, disegnando attraenti melodie attraverso il taglio deciso dell’hard rock. L’aspetto esteriore da copertina – sul fronte delle legioni hair metal – e le naturali doti fotogeniche l’hanno trasformato nel sex symbol maschile per eccellenza del rock ’80: si può ben dire che Jon Bon Jovi sia l’immagine stessa delle sue riflessioni ottimistiche. Ma non si tratta certamente di un ingenuo. I suoi testi più maturi e introspettivi riconosceranno implicitamente che non sempre la fama può soffocare il senso di disagio e addirittura di dolore provocati da un’esistenza vorticosa, specie per chi, come lui, dimostrerà di credere nei valori familiari: infatti è sposato dal 1989 con la sua fiamma liceale, Dorothea Hurley, e dal loro matrimonio sono nati quattro figli. Jon è stato anche un oculato manager di se stesso, pretendendo di controllare fin dall’inizio tutto ciò che riguardava il suo gruppo – dai servizi fotografici al merchandise – ed accettando la responsabilità di ogni sua scelta. Tutto ciò sembra confermare che il successo premia soprattutto chi sa resistere alle sue logoranti pressioni, alle regole del gioco, dando infine ragione a un forzato del lavoro come questo stakanovista del rock, genuinamente umano al di là delle pose a effetto. Jon Bon Jovi nasce a Perth Amboy, New Jersey, il 2 marzo 1962. Il suo nome di battesimo è John Francis Bongiovi Junior, derivato senza troppa fantasia da quello del padre (John F. Bongiovi Senior). Il futuro campione di incassi è il primogenito di tre fratelli ed eredita dalla madre il fascino che lo imporrà fra i protagonisti della scena pop-rock più desiderati dal pubblico femminile. l’avvenente Carol, infatti, prima di diventare signora Bongiovi era stata prescelta come coniglietta di Playboy; ma aveva rinunciato ad avventurarsi nell’insidioso mondo dello spettacolo, preferendo una serena vita familiare. Verosimilmente aveva coltivato qualche segreto sogno di gloria e proprio per questo si dimostrerà sempre solidale con il figlio, quando le ambizioni dell’adolescente John diventeranno esplicite. Carol non fa mistero del fatto che le sue fantasie siano diventate realtà con il successo di Jon Bon Jovi e sostiene orgogliosamente che ha ereditato da lei gli aspetti più estrosi ed esuberanti del suo temperamento. La leggenda vuole che il tredicenne John viva la sua prima, elettrizzante esperienza con il rock & roll ascoltando nel 1975 il celeberrimo hit di Bruce Springsteen “Born To Run”. Asbury Park si trova a una manciata di miglia a sud di Perth Amboy e forse per questo John crescerà con una speciale predilezione per i musicisti del New Jersey, riconoscendo tra le sue principali influenze Southside Johnny & The Asbury Jukes e Little Steven, oltre allo stesso Springsteen.
All’Istituto superiore Sayreville High, Bongiovi fonda il suo primo gruppo, gli Starz, presto ribattezzatisi Raze per l’omonimia con una formazione leggendaria dell’hard rock americano, che proprio fra il 1976 e il 1978 pubblicherà quattro album per la Capitol. Il pubescente team mostra di gradire il lato duro del rock; nel corso di una manifestazione per giovani talenti si esibisce in versioni di Kiss e Bachman-Turner Overdrive, oltre che nell’immarcescibile “Johnny B. Goode”. In quest’epoca John è affascinato anche dall’idea di recitare e debutta in un musical teatrale; decide tuttavia di procrastinare questa vocazione per non compromettere l’identità primaria di rocker.
Bon Jovi dal vivo in Giappone, 1984
Nel suo contesto preferito, il cantante sta infatti acquistando maggiore credibilità: ha costituito una big band rhythm & blues di ben dieci elementi, la ACE (Atlantic City Expressway), che darà vita a un’intensa attività concertistica nei locali della regione. Sembra che Southside Johnny sia stato più volte riconosciuto fra gli spettatori dei loro spettacoli e persino Springsteen – incuriosito dalla versione di “Born To Run” degli ACE – onora la formazione di un’apparizione sul palco. Forse non l’avrebbe fatto, se avesse immaginato che dal complesso sarebbe emerso quel discepolo così poco gradito: basti ricordare le stizzite critiche mosse dal Boss nei confronti dell’emergente Bon Jovi.
Anche gli ACE hanno vita breve, in quanto John decide di lasciar perdere dopo la defezione del tastierista David Rashbaum (nato a Edison, 2 febbraio 1962), che preferisce approfondire il suo bagaglio tecnico presso la Juilliard School, il più famoso conservatorio di New York: non è un caso che l’idolo musicale di David fosse l’incommensurabile Keith Emerson. Lui e John si ritroveranno fatalmente nei Bon Jovi. La gavetta del personaggio principale prosegue intanto con i Rest, un gruppo punk guidato dal chitarrista Jack Ponti, destinato a sua volta a futuri riconoscimenti. I Rest sembrano destinati al successo, anche per l’interesse di grosse case discografiche, e raggiungono l’apice esibendosi di fronte a una folla da stadio, accorsa alla Freehold Raceway nel New Jersey per applaudire Hall & Oates e Southside Johnny. Ma l’avventura finirà a causa del conflitto di personalità fra Jack e John con la cacciata di quest’ultimo dal gruppo. Un’efficace canzone composta in coppia dai due contendenti, “Shot Through The Heart”, apparirà sull’album d’esordio dei Bon Jovi ma due anni più tardi, nel 1985, verrà rivendicata da Ponti come versione originale per la sua opera prima con i Surgin. Il brano è in entrambi i casi nettamente orientato verso l’AOR e non mostra traccia alcuna dei trascorsi punk. Anche Ponti vivrà comunque rimarchevoli momenti di gloria, dedicandosi alla produzione e scrivendo brani di successo per Alice Cooper, Michael Bolton e Nelson, fra gli altri. In mancanza di migliori prospettive, John è accolto dal noto produttore Tony Bongiovi (Ramones, Talking Heads), suo cugino di secondo grado e proprietario del rinomato studio Power Station di New York. Il contratto prevede modeste funzioni da turnista al servizio degli artisti impegnati nelle sedute di registrazione, ma anche l’opportunità di incidere i propri brani nelle ore libere: generalmente poco prima dell’alba. Il ragazzo del New Jersey conosce Mick Jagger che, con sorprendente cordialità, lo incoraggia a non mollare. Intanto, però, con lo smembramento di un ennesimo gruppo, i Lechers, per il giovane Bongiovi sfuma un’altra opportunità. Il prototipo del complesso definitivo è tuttavia alle porte: si tratta dei Wild Ones, con i quali John ritrova David Rashbaum e un altro vecchio amico, il chitarrista Dave “Snake” Sabo che al tramonto degli anni ’80 debutterà con gli Skid Row, gruppo di hard rock più volte insignito del disco di platino. I Wild Ones escono però allo scoperto nel 1982, epoca in cui domina il cosiddetto rock melodico per FM che elegge quali suoi massimi esponenti Journey, Foreigner, REO Speedwagon e Toto. Il primo brano scritto da John per il nuovo complesso, “Runaway”, sembra raccoglierne il testimone, aggiungendo un quid di giovanile freschezza. Anche Tony Bongiovi ne intuisce il potenziale commerciale e il cantante viene affiancato da una formazione di collaudati professionisti (The All Star Review) per immortalarlo su nastro: Tim Pierce, chitarrista di Rick Springfield, Frankie LaRocka, già batterista con David Johansen, Hugh McDonald, a lungo poi bassista “non ufficiale” dei Bon Jovi, e persino Roy Bittan, tastierista di Springsteen, che caratterizza “Runaway” con un dinamico arrangiamento, in cui i Toto di “Hold The Line” e i Foreigner di “Urgent” si uniscono in una soluzione di sicuro effetto. Una radio rock di Long Island, la WAPP, seleziona il pezzo per una compilation dedicata ad artisti senza contratto discografico che viene distribuita nel solo Stato di New York all’inizio del 1983. Si rivelerà un eccellente volano promozionale per gruppi destinati a un avvenire con grandi etichette, come Twisted Sister e Zebra; ma sarà soprattutto “Runaway” a catturare i favori del pubblico: un successo radiofonico richiestissimo a livello locale. Intanto John, non disponendo di una formazione stabile, lascia cadere il progetto Wild Ones e decide di proseguire come solista, adottando il nome d’arte Jon Bon Jovi. Le majors non sono insensibili al suo richiamo e il cantante – dimostrandosi avveduto manager di se stesso – sceglie la Mercury/Polygram per la stima nei confronti dell’uomo che decide di scritturarlo, Derek Shulman, famoso negli anni ’70 in un fondamentale gruppo progressive, i Gentle Giant. Jon, insomma, preferisce affidarsi a un discografico dal rimarchevole passato di musicista: una scelta che si dimostrerà vincente.
La firma del contratto, 1 luglio 1983, è un successo personale ma il cantante non rinuncia all’idea di essere leader di un gruppo. David Rashbaum, con il suo bagaglio di studi classici, è sempre l’ideale uomo delle tastiere per Bon Jovi che, intanto, cerca un chitarrista più affidabile di Dave Sabo. Nel contempo vengono arruolati due esperti musicisti di studio: il bassista Alec John Such (n. 14 novembre 1952) e il batterista Hector “Tico” Torres (n. 7 ottobre 1953). Quest’ultimo è reduce da una formazione apprezzata nei circuiti AOR, Franke & The Knockouts, presente sul mercato con il terzo album “Makin’ The Point” (MCA, 1984).
Ma è ad Alec che si deve il contatto con il perfetto alter ego di Jon: il chitarrista Richie Sambora. Alec e Richie hanno infatti suonato insieme nei Message, un complesso guidato dal futuro vocalist dei Prophet, Dean Fasano. Di questa efficace formazione pomp-rock ci è giunto nel 1995 un insperato documento postumo, l’omonimo CD pubblicato dall’etichetta tedesca Long Island, dove Sambora firma una “Is There Love” molto vicina allo stile dei Kansas. I Message hanno appena concluso un tour come supporto a Joe Cocker quando avviene l’incontro fra il chitarrista e Bon Jovi. Favorevolmente colpito dal carisma del cantante, Richie rinuncia alla bagarre per sostituire Vinnie Vincent nei Kiss, sebbene per qualche tempo fatichi a considerarsi membro stabile del nuovo gruppo, vagheggiando una carriera da solista. Richard Stephen Sambora, nato a Woodbridge, New Jersey, l’11 luglio 1959 non è un parvenu dell’ultima ora. Ha studiato musica fin da giovanissimo e ha rapidamente maturato una versatilità da polistrumentista. La sua prima formazione importante, i Mercy, è stata addirittura scritturata dalla Swan Song dei Led Zeppelin, senza però lasciare tracce discografiche a causa delle difficoltà che avrebbero in seguito messo in crisi l’etichetta stessa. Sambora è dunque l’elemento adatto per completare il quintetto, a cui viene imposto il nome di Bon Jovi. I ragazzi, d’altronde, non sanno proporre convincenti alternative, “scartando” Victory e Johnny Lightning.
Dopo l’esibizione dei Bon Jovi al Madison Square Garden, di fronte al pubblico degli ZZ Top, giunge anche il contratto con un manager di primo piano, Doc McGhee, legato alle rutilanti stelle di Los Angeles, i Mötley Crüe.
Lo stesso Tony Bongiovi si assicura la supervisione dell’album di debutto, affidato per la produzione in studio a un altro veterano, Lance Quinn. Scartato il titolo provvisorio di “Tough Talk”, “BON JOVI” esce il 21 gennaio 1984, incorniciato da una tipica copertina da poser: Jon con espressione seriosa che attraversa una strada di New York notturna per raggiungere i compagni, sotto lo sguardo di una ragazza appariscente. Sembrerebbe la rappresentazione scenica di uno stralcio di “Runaway”: “…(La piccola fuggiasca che) ama le luci sulle insegne al neon, a Broadway di notte”.
Il debut-album può essere considerato a buon diritto un classico dell’AOR, dotato di memorabili melodie innervate da brillanti inserti strumentali. Le già citate “Runaway” (presente nella versione originale ma divulgata da un video detestato da Jon) e “Shot Through The Heart” catturano istantaneamente l’attenzione, mentre JBJ focalizza le sue qualità di intrattenitore recitando il ruolo melodrammatico in “Roulette” e scatenandosi nel rock & roll di “Get Ready”. Infine, nemmeno i limiti di una produzione non certo impeccabile impediscono alle tastiere di Rashbaum (che si ribattezzerà David Bryan) di decollare nel pomp-rock supremo di “Breakout”.
Per una potenziale rockstar di grande fascino, ma anche dalla rassicurante vita privata, sorprendono i testi prettamente focalizzati su dolenti rapporti sentimentali: da “Roulette” (“Passioni violente dominano il mio cuore, ho bisogno di te, tu desideri lui, vestita per piacere…”) a ”Shot Through The Heart” (“Colpito al cuore, là disteso al suolo, fa parte del gioco chiamato amore”) fino alla resa incondizionata di “Come Back” (“Giochi con le parole ed i sentimenti, è la tua stupida mania…torna, ho bisogno di te”): peccati di gioventù, insomma.
Se consideriamo le nette segregazioni stilistiche di quegli anni, tutt’altro che esorcizzate dalla stampa specializzata, dai musicisti e dal pubblico, è sorprendente come i Bon Jovi incontrino inizialmente meno difficoltà a imporsi nella dura Inghilterra, dove predomina il rock più heavy, che negli USA da tempo orientati verso il rock melodico e commerciale. Infatti, se le date americane con gli Scorpions procurano alla formazione notevoli disagi, cementandone tuttavia la coesione umana e musicale, il primo tour europeo con i Kiss presenta un gruppo notevolmente maturato, capace di reggere l’impatto con la folla della prestigiosa arena di Wembley senza alcuna inibizione. La più influente rivista metal, Kerrang!, aveva già recensito Bon Jovi in qualità di top album e le date inglesi con i Kiss saranno il viatico per l’affermazione del quintetto americano come miglior nuovo gruppo nel referendum dei lettori (1984) della stessa rivista. Negli Stati Uniti, i primi riscontri commerciali sono incoraggianti ma non sensazionali: il singolo “Runaway” raggiunge i Top 40 di Billboard, mentre “Bon Jovi” sfiora solamente lo stesso traguardo nella classifica degli album, arrestandosi al numero 43. Alla lunga conseguirà però il doppio disco di platino.
In occasione del suo 40° anniversario, era prevedibile la pubblicazione di un’edizione Deluxe, ciò che puntualmente avviene; trovo però sconcertante, e purtroppo specchio dei tempi, che sia riservata alle piattaforme di streaming.
Infatti le bonus tracks sono esclusivamente in versione digitale; c’è addirittura un’overdose della pietra miliare “Runaway”, proposta in ben quattro registrazioni di studio: il primo demo su cassetta con la voce di Jon accompagnata da una chitarra acustica quasi gutturale, quindi un triplice avvicendarsi di versioni (pre-produzione/alternata/estesa), che ne palesano la genesi, prettamente per completisti del gruppo.
Di studio anche un’outtake di “Get Ready”, dove Jon canticchia una sua proposta di fraseggio di chitarra. Completano il quadro quattro highlights (rimissati per l’occasione, ma già presenti sull’edizione speciale del 2010!) di un concerto a Tokyo del 1985: “Roulette”, “Breakout”, l’irrinunciabile “Runaway” ed infine “Get Ready”, estesa dal tipico sing along con il pubblico. Le esecuzioni danno la misura dell’impatto live del gruppo (che ha fatto la differenza rispetto a meno fortunati concorrenti AOR) e di alcuni fulminei saggi da “eroe della chitarra” di Richie Sambora, certamente da annoverare fra gli solisti notevoli del decennio. Non si tratta ovviamente di materiale fondamentale, ma varrebbe la stessa considerazione per innumerevoli altri casi che hanno trovato spazio in CD/vinile addizionale di ristampe “celebrative”.
Agli appassionati di supporto fisico/fonografico, non resta che attendere la versione in vinile colorato rosso a tiratura limitata (5000 copie), in uscita il 22 marzo, che ripresenta la stessa successione di nove brani dell’edizione originale, senza inediti, ed include litografia (l’immagine del quintetto in apertura dell’articolo).
Si poteva far meglio, tanto più che Jon e compagni continuano ad esercitare una notevole attrattiva sul pubblico. Lo dimostra la serie televisiva che apparirà dal 26 aprile su Disney+, “Thank You, Good Night – The Bon Jovi Story“ – ulteriore omaggio al loro quarantennale – alla quale il cantante ha partecipato attivamente, esprimendosi senza reticenze anche sui recenti problemi alle corde vocali, che reputa ormai risolti grazie ad un intervento chirurgico d’avanguardia.
A seguire, la mia recensione dell’epoca di “Bon Jovi”, pietra miliare dell’hard rock melodico, che si concludeva proprio con quella perentoria affermazione a LETTERE MAIUSCOLE: a posteriori la si può definire lungimirante, non vi pare?
"Bon Jovi", 40 anni fa l'opera prima (Mercury, 1984)
Liberamente tratto da Rockerilla n.45 – 1984
Non mi reputo facile vittima di produzioni A.O.R., ma sono sensibile al fascino indiscreto della musica dagli arrangiamenti sofisticati (i cori ariosi, le tastiere «orchestrali») tradotta in un suono pulito e senza sbavature.
Il versante melodico dell’hard rock in style americano (Aldo Nova, Night Ranger, Foreigner, Journey, l’ultimo Nugent), rappresenta una componente imprescindibile dell’attuale scenario, e quando solide ma raffinate trame hard si conciliano con armonie di sicura presa, adatte al miglior ascolto radiofonico, l’estasi è pronta ad offrirsi ai vostri sensi. Catturatela indugiando su questo ambizioso esordio di Bon Jovi.
Ecco un rocker newyorkese che non rinuncia ad un’immagine passabilmente maliosa, atta a stuzzicare le fantasie delle adolescenti, né ad un suono grintoso, energizzato dalla scelta di un chitarrista, Richie Sambora, pronto a sfidare Brad Gillis nelle grandi arene del rock americano. La copertina ritrae la band di notte, sullo sfondo di una Avenue della Big Apple, con Jon Bon Jovi (che possiede la physique-du-rôle della star) in primo piano presso una provocante figura femminile. Immagine che sembra la trascrizione morbosa delle «Night Lights» di Elliott Murphy, per un disco che esordisce subito con una canzone vincente e ritmicamente pressante, ricca di buone vibrazioni, come «Runaway». «Roulette» insiste su riffs dalla durezza controllata, con l’immacolata voce rock di Bon Jovi a suggerire linee melodiche di cospicua suggestione. E se «She Don’t Know Me» manifesta eccessi di languore, il tono generale dell’LP riprende quota con «Shout Through The Heart», dove il cristallino stile pianistico di David Rashbaum si rende protagonista, ricordando i migliori Harlequin dell’LP «Love Crimes».
Grande exploit commerciale dell’album potrebbe essere «Breakout», con Mr. Aldo Nova al synth, ospite di un altro superbo esemplare di rock yankee dopo «Take Me Away» dei Blue Oyster Cult! (ma stavolta con è coautore del brano – N.d.a.): l’intaglio vigoroso, l’impatto dei cori ne fanno un immediato classico. C’è da aggiungere che a differenza della produzione media A.O.R., raramente il ritmo viene relegato in secondo piano, e lo ascriverei a merito di Tico Torres, impeccabile, aggressivo skin beater, ex Frankie & the Knockouts. Così l’album finisce in gloria fra gli echi plananti di «Come Back» ed il rock’n’roll primario di «Get Ready».
Non c’è dubbio, questo super Bon Jovi è sinonimo di U.S. hard rock DELUXE…
Credetemi, SARÀ FAMOSO.
Bel lavoro Beppe, bravo, aggiungo che è stato piacevole rileggerti su Rockerilla. Proprio grazie a quella tua recensione mi impuntai per far comprare alla Fonoteca del mio paese natale, Nonantola (MO) – di cui ero all’epoca collaboratore della rivista musicale ad essa collegata – l’album di debutto di John. Come sai non è esattamente my cup of tea, ma in quegli anni pieni di enfasi rimasi colpito dai primi 4 album del gruppo. Grazie per avermi fatto rivivere bei ricordi.
Ciao Tim, effettivamente non pensavo che Bon Jovi fosse la tua “tazza di te'” ma l’album ed il gruppo erano pienamente rappresentativi del “decennio dorato” che come sai ho sempre sostenuto. Non è nel cuore di tutti, ovvio, ma ultimamente si assiste ad un revival nostalgico degli anni 80, anche sulla stampa. Il tuo commento fa sempre piacere, grazie.
Buonasera Beppe.
Direi che sei stato un buon profeta.
Non era nemmeno una previsione così semplice tutto sommato, visto il gran numero di artisti che si muovevano nell’ambito del melodic rock, negli Stati Uniti, in quella sfavillante prima metà degli anni 80. Evidentemente avevi già chiaro che Jon Bon Jovi aveva qualcosa in più dei numerosi ed agguerriti concorrenti.
A proposito di ciò, io credo che la statura e l’importanza dei Bon Jovi non sia mai stata sufficientemente chiara, almeno al pubblico non americano.
Sarà perché in Europa e in particolare in Italia certi fenomeni musicali (e non) arrivano sempre in ritardo e in versione un po’ distorta, sarà perché l’AOR non è mai stato un genere così amato e compreso da questa parte dell’ Atlantico; i Bon Jovi hanno saputo superare questi ostacoli ed imporsi a livello mondiale. Lo hanno fatto con ben QUATTRO capolavori assoluti del genere e del rock tutto (ormai credo si possa dire). Credo altresi’ che una parte del successo dei due dischi più venduti ( Slippery… e New Jersey) vada ascritto a Bruce Fairbairn, ma non cambia il risultato finale.
Io personalmente apprezzo molto anche Keep the Faith e il solista Blaze of Glory, poi onestamente trovo che la parabola artistica della band sia andata irrimediabilmente in calando, per due motivi che ironicamente sono in contrasto tra loro…il pubblico dei Bon Jovi, sia i “vecchi” che le generazioni più giovani, non vogliono sentire quel rock generico e/o alternativo che Jon si ostina a proporre, ma vuole sentire Livin on a Prayer, Wanted dead or alive, Runaway, la lista è lunga. Solo che i Bon Jovi ora come ora non potrebbero mai incidere un nuovo Slippery , nemmeno se ci si mettessero di impegno.
Perché quel tempo è passato, molto semplicemente.
Purtroppo in questi ultimi giorni lo stesso Jon ha dichiarato che non sa quando potrà ritornare ad esibirsi dal vivo, per i postumi dell’operazione a cui si è sottoposto per risolvere i problemi alla voce che da tempo lo tormentano.
Speriamo tutti che ritorni sul palco il prima possibile, magari con Richie Sambora di nuovo nella band.
Ciao Lorenzo, senza pretendere di fare “profezie” è comunque motivo d’orgoglio aver puntato in termini così decisi su un personaggio che poi ha fatto oggettivamente la storia, al di là di simpatie o antipatie personali. Anch’io apprezzo “Keep The Faith” e “Blaze Of Glory”. A proposito del nuovo singolo “Legendary”, lo trovo abbastanza fedele allo stile che lo rese famoso, anche se sicuramente la voce e la carica non sono le stesse. Si è parlato anche di un possibile ritorno di Sambora nei ranghi. Verificheremo! Grazie del commento esaustivo.
Bellissimo articolo (come sempre) per un artista che ho stimato immensamente fino a New Jersey (come hanno scritto anche altri), autore di un capolavoro assoluto quale Slippery When wet, che rimane immortale e attuale ancora oggi.
A me piaceva molto anche 7800 Farheneit ( il secondo lavoro), ma in effetti il primo è veramente una boccata di aria fresca che mi colpì molto. Dopo questi 4 album la routine, un certo mestiere e la voglia di adeguarsi alle mode lo hanno reso non indispensabile nel mio immaginario. Ho anche gli altri lavori, ma sanno molto di manierismo, pur suonando molto professionali, ma la scintilla non c’è più. Lo ho visto in concerto al Palasaport di Firenze nel 1988 (era New Jersey) e in quel momento “spaccava”, grande voce, grande immagine e la consapevolezza che in quel momento poteva tutto e tutto gli veniva facile. Oggi non si può più vedere e sentire dal vivo (sigh!). Ma come tutti gli idoli della nostra gioventù rimane su un piedistallo. Accidenti la nostalgia ci frega sempre a noi vec…, ops attempati.
Grazie per tutto !
Ciao Francesco, vero, il consenso generale dei lettori celebra l’era Bon Jovi fino a “New Jersey” incluso, ma a mio avviso BJ ha scritto anthem che rimangono nella memoria collettiva anche dopo, da “Keep The Faith” a “It’s My Life”, tanto per esemplificare. Ovviamente resteranno sempre un vessillo sfavillante del rock anni 80. Grazie dell’apprezzamento.
Ciao Beppe, negli anni dell’ immagine prima di tutto Bon Jovi rappresentava la summa di tutto ciò, l’immagine da pin up boy ,di bellezza maschile da poster per i sogni bagnati delle teen agers di tutto il mondo visto il successo ottenuto a priori di questo debutto e alle pubblicazioni successive.
Questo ha sempre portato antipatie e discriminazione nell’ ambiente del Rock duro specie dai fans delle frange estreme
del genere che mai hanno guardato con occhi obiettivi alla qualità della proposta musicale della band che era per quei tempi tutto rispetto e soprattutto di personalità spiccata nella scena di allora..
Dico questo perché come ribadisci tu la sua proposta rifletteva il clima egemoniaco degli USA sulle vicissitudini mondiali dettando legge anche sulle sorti musicali, oggi sinceramente il povero Jon non gode che minimamente del successo che godeva in quell’era ed anche la sua musica è cambiata adattandosi alle sonorità più contemporanee e diventando più seriosa …
Magari si parlerà di maturità,di crescita musicale e individuale perché non è più come noi un ragazzino.. io tornerei volentieri ai tempi di questo splendido debutto che rifletteva musicalmente un’ epoca più spensierata e positiva e una voglia di semplicità che oggi è miseramente offuscata e ammantata di grigiore opprimente…
Ciao Roberto, le tue considerazioni coincidono generalmente con le mie. Per quanto riguarda la vena creativa non più brillante come un tempo (oppure specchio dell’età/maturità che modificano l’attitudine), non è solo un problema di Bon Jovi, ma vale quasi in toto per chiunque realizzasse musica di stampo giovanile, compreso l’approccio hard’n’heavy, spesso stereotipato col passare degli anni. Bisogna prenderne atto, poi si resta legati a ciò che si è vissuto con maggior entusiasmo! Grazie.
Ciao Beppe, complimenti per l’articolo, letto tutto d’un fiato!
Spero che un giorno, nel tuo blog, potrai anche parlare dell’altro gruppo Hard melodico anni 80 di successo planetario, che per certi versi credo sia stato il massimo “rivale” dei Bon Jovi in quel decennio: ovviamente parlo degli Europe, tutt’oggi sottovalutati a mio avviso!
Ciao
Grazie Stefano, generalmente cerco di correlare dei “recuperi eccellenti” a situazioni d’attualità (ristampe, anniversari etc.). Per quanto riguarda gli Europe, certamente al top negli anni 80, mi sembra comunque che si siano ben ridefiniti come gruppo di hard rock classico con esiti tutt’altro che da sottovalutare. Poi, lo sai, i detrattori sono sempre dietro l’angolo. Ovviamente i miei interventi sul blog sono limitati, ma considero le osservazioni dei lettori. Ciao
Ciao Beppe, come al solito complimenti per l’articolo, sempre stimato Bon Jovi ovviamente, soprattutto le prime cose, ma fino a New Jersey inappuntabile. Hai fatto bene a sottolineare i The Rest, in quanto ho letto da più parti che fu proprio Jack Ponti a determinare il sound innovativo dei primi Bon Jovi e in effetti When Midnight Comes si muove nella stessa direzione. Quando leggo i tuoi articoli vorrei tornare negli ’80! Ah! Dimenticavo: molto bello anche Makin’ The Point con Tico e Bobby Messano
Ciao Fabio, grazie per le tue gentili parole. Anche a me, quando scrivo certi articoli, piacerebbe ancora essere negli anni 80, non foss’altro perché ero ben più giovane e scattante! Battute a parte, i revival di tendenze musicali ben difficilmente equivalgono agli originali, specie per chi li ha vissuti in tempo reale. Restano tante memorie inalienabili. Stammi bene.
Buongiorno Beppe, come sempre avevi visto giusto! Ho sempre portato rispetto per John, anche quando i “duri e puri” lo denigravano. E’ anche grazie a lui, che dopo i successi dei fondamentali “Slippery when wet” e “New Jersey”, alla fine degli anni 80 abbiamo ricominciato a vedere dal vivo dalle nostre parti band che erano passate poco o mai (Alice Cooper, Judas Priest, Ted Nugent, per citarne alcuni). Nel 1987 ebbi la fortuna (beati 20 anni) di partecipare al Monsters of Rock di Donnington, dove i Bon Jovi erano headliners in un bill da paura (all’estero non se ne facevano problemi), alla fine dello show i nostri vennero raggiunti sul palco da Bruce Dickinson, Paul Stanley e Dee Snider per un paio di cover, questo dimostrava anche cosa ne pensassero i colleghi. E quest’anno al MusiCares è stato premiato come person of the year, omaggiato anche dal suo paesano Bruce! Non male per un ex ragazzino del New Yersey.
Ciao Paolo, si, quella volta ci ho azzeccato. Essere “duri e puri” non significa digrignare i denti e far più rumore degli altri, c’è tanto altro, il carattere non si misura solo dalle apparenze. L’esperienza a Donington resterà sempre impressa nella tua memoria; per quanto riguarda i musicisti ci sono rivalità, convenienze, stima effettiva, sui quali è difficile pronunciarsi, ma penso che siano senz’altro più aperti di certe fazioni del pubblico. Quella notizia del premio che riporti mi era sfuggita, addirittura con l’approvazione del Boss…Grazie per il commento e la segnalazione.
Grande epoca, in cui erano ancora il talento ed il duro lavoro a decretare il successo di un’artista. Jon ha dettato le regole per l’affermazione di un certo hard rock melodico per diversi anni, nonostante la bellezza dei primi 4 lavori (ci metto pure New Jersey) non sia poi più stata replicata. Questo primo album, oggetto di celebrazione per il quarantennale, possiede ancora oggi una freschezza ed una vitalità tali da poterlo considerare un classico, nonché la perfetta fotografia di un’epoca irripetibile.
Ciao Beppe.
Ciao Alessandro. Si, quell’epoca la rimpiango molto. Anche in tema di hard rock melodico, la freschezza e l’INNOVAZIONE (si, l’innovazione, perché era un suono che non si rifaceva al passato) che si respirava allora, non può essere replicata dagli epigoni moderni. Raro trovarne all’altezza almeno del paragone. Ed anche gli artisti “storici” più interessanti hanno un ciclo difficilmente ripetibile da loro stessi. Grazie dell’attenzione.