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ALBUM & CDHard & Heavy

Sulle “frontiere” dell’hard rock melodico: Giant, Crazy Lixx, Eclipse, Houston

Di 14 Gennaio 2022Aprile 7th, 202216 Commenti

Giant 2022: David Huff, Mike Brignardello, Kent Hilli, John Roth

Negli ultimi mesi si sono date appuntamento per il come-back discografico alcune delle più interessanti realtà post-2000 sul fronte dell’hard rock melodico e dell’AOR memori delle glorie anni ’80, ossia Eclipse, Houston e Crazy Lixx. Niente affatto casualmente, sono tutte di nazionalità svedese, che non è solo la “terra promessa” di questa fascinazione musicale, ne accenneremo in seguito.
Il 21 gennaio è invece fissato il ritorno di uno dei grandi nomi da culto americani, Giant, assenti dal supermarket discografico dall’ormai lontano 2010. Non è un caso che tutti questi artisti, oltre a numerosi altri, appaiano sotto l’egida della Frontiers, l’etichetta “tricolore” che più di ogni altra, a livello internazionale, si è impegnata a ravvivare la fiamma del rock melodico che affonda le sue radici negli Eighties, ma con caratteri propri e sonorità attuali.
E la ricerca continua, ad esempio sono favorevolmente sorpreso dal singolo “Heat Of The Night” dei City Of Lights, riuscito sodalizio artistico fra un emergente musicista inglese, Neil Austin, ed un altisonante vocalist greco, Manos Fatsis. Per i fans dell’AOR, la loro imminente opera prima “Before The Sun Sets” (11 febbraio) può essere una rivelazione.
Nel frattempo, passiamo in rassegna gli ultimi album dei gruppi citati, per fare il punto sulla situazione di un genere di musica, l’hard/AOR, che pur ignorato dai media più influenti, e con un look un po’ dimesso dei protagonisti (l’età che avanza impietosamente, ma anche i tempi che cambiano, meno inclini a certe estetiche) è ancora in grado di emozionare per la passione e l’integrità artistica dei suoi fautori.

CRAZY LIXX: “Street Lethal”

La Svezia è da tempo una sorta di Ultima Thule dell’hard rock melodico, specie ormai considerata “sotterranea” o frettolosamente in via d’estinzione nei centri nevralgici, persino in America dove visse negli anni ’80 un’epoca di dominio assoluto. Invece la Scandinavia vanta da sempre illustri precedenti in varie etnie rock di matrice “classica”; iniziarono i finlandesi Hanoi Rocks, capaci addirittura di influenzare la scena street-glam di L.A. (Guns N’Roses in testa). L’autentica bomba esplose a livello internazionale con gli straripanti Europe di “Final Countdown” punta d’iceberg di una scena che comprendeva Treat, Dalton, Glory, Alien e tanti altri. Ma anche in seguito il Grande Nord non si è fatto mancare nulla, perseguendo differenti direzioni musicali negli anni ’90, quando si sono affermati The Hellacopters – restauratori del garage rock con radici in Detroit – ed altri rilevanti gruppi come Backyard Babies, Gluecifer, Turbonegro, Hardcore Superstar. Nel frattempo, proliferava anche la scena heavy metal, spinta fino alle più oscure, estreme conseguenze, generando infine potenziali superstar come i Ghost, con un occhio (malefico) di riguardo verso la melodia…
Fatta questa doverosa premessa, la tradizione Scandi-rock ha proseguito la sua marcia inesorabile anche nel Terzo Millennio, e tornando al tema introduttivo, ha svelato gruppi impegnati nel far rivivere gli anni ruggenti dell’hair metal come i Crazy Lixx, che sembrano nati per sbaglio a Malmö, perché con quelle sonorità, li avremmo scambiati facilmente per revivalisti del Sunset Strip di Los Angeles.
Non sono degli imberbi giovincelli, nel 2022 celebrano il 20° anniversario della fondazione, ed il nuovo “Street Lethal” è il loro ottavo album, se consideriamo anche il tipico best of dal vivo, “Sound Of The Live Minority”.

La copertina di “Street Lethal”, fumettistica ma di effetto garantito, li vede al centro di un congestionato crocevia urbano, e flirta un po’ con l’iconografia dell’hard rock d’annata, come la precedente di “Forever Wild”, ma siccome il tempo non passa invano, l’immagine dei musicisti è più realistica, rifugge le tanto vituperate acconciature da Barbie maschili, che anche i “trasversali” Guns N’Roses adottarono agli esordi.
Risultano convincenti non tanto gli aspetti formali ed eventualmente nostalgici, ma il mix di maturità e freschezza che rendono “Street Lethal”, l’opera più riuscita di un gruppo assai collaudato, che ha già alle spalle una longevità discografica superiore a molti miti del passato. Dopo l’intro d’atmosfera “Enter The Dojo”, che si potrebbe attribuire a discepoli di Giuffria, Crazy Lixx scatenano la loro energia in “Rise Above”, combinando autorevolmente una serie di elementi decisivi: armonie vocali trascinanti, ritmi e riffs accelerati, arrangiamenti impreziositi dalle tastiere, immancabile, rampante assolo di chitarra. E’ la stessa formula che avvince nella title-track “Street Lethal”, un incrocio demolitore fra Skid Row (epoca Seb Bach/Atlantic Years) e Dokken, dove sorprende l’intensità nel rileggere quei “classici”, connaturata a qualsiasi proposta di hard rock moderno degna di rispetto. “Anthem For America” è verosimilmente una professione di fede, che ambisce a misurarsi con le proprie radici artistiche; il video con appariscenti ballerine vestite a stelle e strisce ne è adeguata coreografia. “The Power” è invece un martellante mid-tempo dove le armonie vocali riflettono l’”Isteria” dei Def Leppard, e dalla stessa matrice scaturisce “In The Middle Of Nothing”, introdotta da sontuose tastiere…Non può mancare la rituale power ballad, invero dal ritmo sostenuto, “One Fire-One Goal”, dove l’efficace vocalist Danny Rexon sfoggia il feeling emozionale che a suo tempo portò alle stelle Jon Bon Jovi; tanto per restare in tema, riecheggiano impressioni di “Runaway” nel chorus di “Thief In The Night”, scandito dal piano sussultante in stile AOR. Rexon si appunta anche la stelletta di una brillante produzione, assistito dal competente Tobias Lindell (Europe, H.E.A.T. etc.) al missaggio.
Non aspettatevi invenzioni, ma nemmeno una copia sbiadita dell’hard melodico anni ’80, che invece Crazy Lixx rilanciano con furore emozionale e necessaria credibilità.

Danny Rexon (Crazy Lixx)

ECLIPSE: “Wired”

Fra i gruppi di maggior risonanza della generazione rock svedese del Terzo Millennio, segnaliamo certamente gli Eclipse dell’iperattivo Erik Martensson, voce e chitarra ritmica. Un personaggio sulla cresta dell’onda, se consideriamo che con Robert Sall dei Work Of Art e Jeff Scott Soto (Talisman, ma è ben nota la carriera pluridecennale del cantante) ha dato vita ai W.E.T., supergruppo dell’hard rock melodico la cui sigla è una combinazione delle iniziali delle tre formazioni d’origine.
Giova citarli, perché con il quarto album di studio, “Retransmission” (2021), W.E.T. hanno ricevuto l’onorificenza di “album dell’anno AOR” da una quotata rivista inglese. A mio modesto avviso un po’ eccessiva, se pensiamo che il singolo “Got To Be About Love” richiama non solo nel titolo (sempre di “amore” si tratta…) “Does It Feel Like Love” degli immani Signal; ma il solo fatto di riecheggiare all stars dell’epoca – The Storm, per aggiungere un’altra memoria spezzacuori – depone a loro favore in questi decadenti anni Venti.
Gli Eclipse sono comunque di tutt’altra natura; mi avevano colpito con l’epica “Battlegrounds” (dall’opera quarta “Bleed And Scream”, del 2012) per le reminiscenze con la classica “Over The Hills And Far Away” del compianto Gary Moore, rilanciata mirabilmente dai Nightwish.
Avvicinandosi all’hard rock commerciale dall’approccio comunicativo e giovanile, che non è affatto sinonimo di “compromesso”, Eclipse hanno intensificato la loro fama grazie all’ottavo album di studio, “Paradigm” ed ora rischiano di andar oltre con il nuovo “Wired”.

Il quartetto di Stoccolma ha elaborato la sua perfetta sintesi pop-metal (come l’avremmo definita negli eroici anni ’80), realizzando una sequenza ininterrotta di potenziali singoli con i dieci brani, più differente bonus-track per CD/LP.
In una recente intervista radiofonica agli amici di “Linea Rock”, il leader Erik Martensson ha rivelato di essere un curioso fruitore di ogni genere di musica, ed è forse questo il segreto che rende gli Eclipse particolarmente “contagiosi”, dunque eredi degli Abba in chiave rock…definizione già azzardata nei confronti dei Ghost, un po’ troppo mefistofelici per esser reputati tali. “Wired” chiarisce subito il concetto con la partenza lanciata di “Roses On Your Grave”, cori massicci e chitarre esuberanti, e l’immediatezza regna sovrana in “Saturday Night (Hallelujah)”, un inno hard rock alla “febbre del sabato sera” dalla spiccata vocazione anthemica.
Altrettanto si può dire di “Twilight”, dal ritmo incalzante che riecheggia lo stile dei maestri svedesi Treat, prima di concludere con una scanzonata citazione de “L’inno alla vita” di Beethoven!
Ma la “canzone” non è sempre la stessa, gli Eclipse sanno variare la loro formula espressiva; ad esempio “Run For Cover” rivela una tendenza AOR nella sua spaziosa estensione melodica, sebbene lo slancio rock prenda poi il sopravvento, spronato dalla scintillante chitarra di Magnus Henriksson, primo attore del commando musicale. “Carved In Stone” è a sua volta differente, una ballata dall’ispirato preludio intimista, prima di cedere il passo all’esplosività tipica degli Eclipse. Fors’anche più riuscita sul piano melodico “Poison Inside My Heart”, dischiusa da un prezioso arpeggio folk; poi si riaccende il furore elettrico ed i cori sono estremamente efficaci. Ma non ci sono momenti noiosi, come tempo addietro sentenziava Rod Stewart dall’alto delle classifiche di vendita; “Bite The Bullet” sfoggia un elegante bridge di chitarra del sempre creativo Magnus, “We Didn’t Come To Close” è un altro indizio di piacevolissima sensibilità pop e “Things We Love” rispolvera un valoroso riff celtico, tornando al taglio metallico delle origini.
Nessun riempitivo dunque, e per gli appassionati di vecchia data, se piacevano gli album su Atlantic dei trascinanti Baton Rouge (i “protetti” di Jack Ponti), gli Eclipse potrebbero esserne l’equivalente attuale, ovviamente con le specificità dei rispettivi casi.

Erik Martensson (Eclipse)

HOUSTON: “IV”

Gli Houston, svedesi evidentemente infatuati dal “sogno americano”, avevano fatto irruzione nell’arena rock nell’anno di grazia 2010, quando il loro omonimo debutto era stato eletto miglior album di categoria AOR dalla risaputa “bibbia” inglese per appassionati di rock classico virato hard’n’heavy.
Non era certo la pesantezza dei suoni la prerogativa degli Houston, ma un suono levigato ed incline al rock radiofonico/melodico degli anni ’80, più di qualsiasi band presentata in questa rassegna. Si pensi che la loro sontuosa versione hi tech di “Runaway” (2013), abbinata ad un popolare video su YouTube – “Imaginate” del pilota di trial Danny MacAskill – ha riscosso un successo che gli autori del brano, i Dakota, pionieri-cult dell’AOR, potevano auspicare solo con una fervida immaginazione. “Runaway” (che non è la stessa di Bon Jovi) dava infatti il titolo al loro secondo LP, uscito su Columbia nell’84.

Da allora lo stile sofisticato degli Houston non è cambiato, giungendo nello scorso ottobre al primo album per la Frontiers, “IV”. Ripropongono il sodalizio con l’originario compagno d’avventura, Rick B. Delin, che fornisce un sostanziale contributo negli arrangiamenti ed in qualità di produttore e compositore.
Così brani accurati, dalla cristallina pulizia sonora, come l’iniziale “She Is The Night” ed “Hearbreaker”, presentano rock melodico ad alto gradiente tecnologico, caratterizzati dalle efficaci manipolazioni elettroniche di Richard Hamilton, come ricordavamo nell’epoca aurea dei vari Spys, Stabilizers, The Ladder, Sheriff e conseguenti Frozen Ghost… Perfettamente calata nel contesto, anche la chitarra di Carl Hammar che rasenta gli effetti siderali del maestro Michael Thompson.
Houston detengono ottime qualità compositive nello scrivere canzoni pop-rock dalle inflessioni romantiche (“You’re Still The Woman”, “Such Is Love”) e comunque suggestive (“Storyteller”), dove si può cogliere la lezione di un loro eroe, John Farnham, quello di “You’re The Voice”, coverizzata dalle Heart e persino dai Blind Guardian!
Discende anche la polvere di stelle di una delle principali influenze a loro imputabili, Survivor, specialmente in “Heart Of A Warrior”, che riecheggia non poco l’andamento di “Eye Of the Tiger”, oppure “Into Thin Air”, dove il cantante Hank Erix fa del suo meglio per reggere il confronto con lo scomparso Jimi Jamison, e che conclude l’album con un crescendo melodico in ragguardevole stile.
Se tutto ciò vi alletta e la nostalgia di certe sonorità disperse da almeno trent’anni brucia ancora, l’ascolto di “Houston IV” può essere la cura appropriata.
In tale ottica, anche il design di copertina, davvero ben illustrata, si ricollega idealmente all’epoca di riferimento.

Carl Hammar (Houston)

GIANT: “Shifting Time”

E dulcis in fundo, giungiamo alla novità AOR certamente più attesa del momento, il quinto album di studio dei Giant, “Shifting Time”. Diciamolo subito, per i “ragazzi dell’89”, quell’anno magico che sembrava consolidare il rock melodico ai vertici del mercato discografico, prima che la tempesta grunge ne frantumasse i sogni, il quartetto di Nashville rappresentò un’entità davvero speciale. Sono convinto che anche fra i nostri lettori sussistano inguaribili nostalgici di quell’epoca, a giudicare dall’accoglienza riservata all’articolo “1989: Un anno di AOR Heaven” che consegnai al Blog nel giugno 2020.
Ma i Giant erano innanzitutto i membri fondatori Dann Huff e Alan Pasqua: il primo, chitarrista di eleganza superiore, tramutato pure in cantante ideale per il loro stile, dalla voce calda e profonda come le atmosfere dei due fantastici album “Last Of The Runaways” e “Time To Burn”; Alan, a sua volta collaudato musicista di studio e raffinato artigiano delle tastiere, ideale per la scenografia di quei due capolavori. Poi le intemperie che rivoluzionarono il rock degli anni ’90 costrinsero alla resa anche quel “Gigante” dell’hard rock sofisticato…Dann si avventurò nella carriera di produttore, impegnandosi nell’ardua impresa di “ingentilire” il rifferama dei Megadeth e suscitando le ire di Dave Mustaine per avergli ri-registrato parti di chitarra nell’album “Risk”. Alan invece tornava alla rassicurante prassi delle sessioni di studio. Nel 2001 la Frontiers, specialista in recuperi eccellenti, rilanciava i Giant con l’immutata sezione ritmica (Mike Brignardello, basso e David Huff, fratello di Dann, batteria) oltre allo stesso cantante/ chitarrista, che però lasciava dopo un album, “III”, non all’altezza dei precedenti.
Nemmeno la successiva line-up di “Promise Land” (2010) con il cantante degli Strangeways, Terry Brock, ed il chitarrista John Roth (Winger, Starship) rinnovava i fasti degli esordi, ma l’etichetta crede fermamente nel carisma dei Giant, ed insiste per un loro ritorno in azione discografica.
Così gli albori del 2022 salutano il nuovo album “Shifting Time”; accanto agli inossidabili Brignardello e David Huff e al confermato Roth, c’è il versatile tastierista chez Frontiers, Alessandro Del Vecchio, ed un vocalist della stessa scuderia, Kent Hilli degli svedesi Perfect Plan, che con il suo EP di cover dello scorso settembre, “Vital 4”, aveva già rassicurato tutti sul suo amore per il classico AOR americano. Come se non bastasse, ha ammesso di coronare un sogno: cantare con il suo gruppo preferito – Giant, appunto – e la versione di “Stay” da lui incisa con i Perfect Plan in un precedente EP di cover, “Jukebox Heroes”, è stato un indizio premonitore! (potete ascoltarla nel video a margine, non essendo ancora disponibile altro materiale di “Shifting Time”).

La title-track che inaugura il nuovo album dei Giant è però uno strumentale che sembra ampliare gli orizzonti della fugace chitarra evocativa in apertura di “I’m A Believer”. L’impronta del nuovo quartetto emerge subito dopo nei singoli “Let Our Love Win” e “Never Die Young”, dove sulla matrice hard rock della chitarra di John Roth, competente se non proprio avventurosa, si staglia la voce potente e melodica di Hilli, sulla scia di grandi del passato quali Jimi Jamison, Joe Lynn Turner, Lou Gramm, verosimilmente fra le sue principali influenze. In “LOLW”, spicca un solitario cameo di Dann Huff, che ci regala un suo assolo di chitarra, peccato non andar oltre.
“My Breathe Away” conferma che forza e raffinatezza espressiva restano l’obbiettivo ambito, sebbene permanga una maggior uniformità compositiva ed un “potere d’atmosfera” – davvero il quid in più dei primi Giant – oggettivamente inferiore.
Il punto di forza della rinnovata formazione risiede proprio nel nuovo cantante, che eccelle in refrain spesso avvincenti, da “My Breathe Away”, a “Don’t Wanna Lose You” e “Standing Tall”, quest’ultimo apprezzabile anche per l’uso sapiente degli echi in sede di produzione.
Giova sottolineare che “Shifting Time” esplora dignitosamente ogni strategia a disposizione; le ballate passano in rassegna il clima onirico in perfetto AOR style (“It’s Not Over”), la declinazione power (ballad) in “The Price Of Love” ed i rilassanti toni acustici (“Anna Lee”). Inoltre si evince un tocco blues alla Whitesnake/Tangier in “Highway Of Love”, oppure il carattere melodrammatico sottolineato dalle tastiere in “Walk Away”.
Tutto davvero piacevole, se non vi aspettate l’eccellenza assoluta del quartetto originale. E’ corretto rimarcare che questa è un’altra band, con la stessa sezione ritmica. Ma rendiamo doveroso merito all’ingresso di Kent Hilli, che supera l’esame a cui aspirava a pieni voti.

Kent Hilli (Giant)

16 Commenti

  • Gianluca CKM Covri ha detto:

    Caro Beppe. Nel 2022 mi sono ripromesso di non ascoltare dischi recenti, perché vorrei recuperare lavori usciti soprattutto nei ’70/80. In ogni modo questi 4 me li metto nella mia infinita Wish list. Di certo non mi deluderanno, credo almeno, quando avrò tempo di ascoltarli, anche se onestamente i Giant senza i due maggiori e fondamentali protagonisti….mmm…non so….
    Non sapevo del discorso coi Megadeth, ottimo spunto visto che tra qualche settimana potrei parlare in radio proprio di risk.
    Alla prossima e grazie .

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Gianluca, molti appassionati si concentrano sul recupero dei dischi “storici” ed è legittimo. Non è giusto comunque perdere di vista l’attualità poiché si rischia di vivere nel passato, aureo finché ci pare, ma passato è. Cerchiamo di dare una chance alle novità, anche se capisco le perplessità di chi ritrova i “nuovi” Giant senza i due protagonisti di primo piano di fine anni ’80. Grazie

  • Luca Volpe ha detto:

    Ciao Beppe,
    fare musica originale che abbia senso non è facile, quindi applaudiamo chi ci prova. Questo però non toglie che vada ascoltata con un misto di entusiasmo e attenzione. Quindi, bisogna cercare equilibrio. Ci provo.

    Il nuovo Houston è il primo che trovo ascoltabile, confermando una crescita costante, anche se con una tendenza ancora troppo emulativa e poca rielaborazione;
    i Crazy lixx hanno il problema di molti musicisti Metal (del quale il Glam fa parte) ovvero troppi dischi in poco tempo, ma questo fa il paio con A rock and a hard place del 2010, un buon lavoro;
    gli Eclipse li vedo in crescita, ma son la somma dei difetti dei gruppi sopra. Credo che gli svedesi con Aor e Glam siano come i giapponesi per rock progressivo e fusion: grandi ed entusiasti esperti, ma nell’ascolto. Già ai tempi eroici, a parte Europe o Treat e nomi meno conosciuti come Great king rat o Electric boys, avevano lo stesso problema. Perché non s’indirizzino anche verso altri stili (pomp, epico alla Uriah heep quando avevano i Biscaya, tradizionale alla UFO) è un mistero. I nuovi Giant meglio degli ultimi HOL.
    Consiglio un gruppo attuale, i LeBrock: si dibattono fra Journey e synthwave, ma il tuo parere potrebbe inquadrarli meglio.

    Bel pezzo come sempre, una sicurezza.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Luca, fa piacere la partecipazione al dibattito di lettori molto attenti (ed esigenti!). La tua analisi è molto chiara, anche tu ti schieri sul versante critico nei confronti del rock svedese. Dei gruppi in argomento ho già parlato a lungo. Citi inoltre gli Electric Boys che però avevano dato una risposta convincente alla voga del crossover funk-metal. Sul perché delle direzioni stilistiche privilegiate dagli scandinavi è difficile proferir verbo. Si potrebbe chiedere ad alcuni di loro in intervista. I Lebrock sono interessanti, hanno un valido cantante e la tua definizione è azzeccata. Non so se basti per definirli di personalità svettante, fattore che giudichi carente nei gruppi trattati nell’articolo. Giusto segnalarli all’attenzione degli appassionati. Grazie.

  • Roberto Torasso ha detto:

    Ciao Beppe, interessante questo articolo per capire l’evoluzione di una scena che negli anni che furono ha forgiato un’epoca contrastando le varie correnti musicali con cui si diramava il suono Hard & Heavy.
    L’hard melodico e l’A. o. r. hanno vissuto il loro massimo splendore fino alla fine degli eighties e questo credo che sia innegabile ed incontestabile, poi ha avuto un rapido declino fino a diventare paradossalmente underground per il cambio generazionale che ha mutato il corso degli eventi nella musica rock accantonando le superproduzioni e l’estetismo formale cui era caratterizzato questo suono.
    La scena nordeuropea più di altre ha mantenuto la sua tradizione verso questi generi oltre ovviamente quella americana, ma come altre è sempre stata derivativa a mio gusto proprio perché si tratta di un suono prettamente peculiare degli statunitensi, quindi sì mi viene da definire questi gruppi belli ma senz’anima.
    Non discuto la capacità tecnica e compositiva ma personalmente mi hanno sempre lasciato perplesso , tranne qualche caso, gli entusiasmi per questi gruppi specie per il fatto anche di avere miriadi di formazioni che gravitano attorno agli stessi nomi.
    Lo stesso discorso lo faccio con i Giant che sinceramente potevano cambiare monicker perché non ha senso mantenerlo quando mancano i musicisti che erano il fulcro del gruppo, sono d’accordo con chi pensa che reclutare un cantante che provenga da altre esperienze non sempre è vantaggioso se non riesce ad apportare nuova linfa o a snaturare il sound originale di un gruppo…. Già Terry Brock ha fatto danni altrove😁… Un saluto

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Roberto, gran parte del tuo intervento mirato, concorda con precedenti spunti critici, quindi non mi ripeterò su certi aspetti. Prendo spunto però dal tuo “belli senz’anima…”. Non credo che chi ama un genere di musica e lo professa, eventualmente rifacendosi ad esperienze precedenti, sia “senz’anima”. Penso che sia la passione a spingere a percorrere strade già battute…Semmai alcuni gruppi possono essere (più o meno) belli, ma senza spiccata originalità. Non trovi? Per i “New Giant” la valutazione preminente è quella che sarebbe stato meglio si fossero ripresentati con un altro monicker. Certamente adottare un nome “classico” (ma lo fanno in tanti) esige di esserne all’altezza. Però quante volte abbiamo ritenuto gruppi importanti non all’altezza della loro fama, o comunque fin troppo ripetitivi? Invito dunque ad una valutazione globale nel soppesare i vari aspetti un come-back discografico. Però se fossi responsabile di un’etichetta terrei conto di queste osservazioni: val la pena forzare il “rientro” di un nome storico? Alle vendite la sentenza.

  • Paolo Migliardo ha detto:

    Ciao Beppe,inutile dire che sei avanti un paio d anni luce rispetto a tutti…
    Forse che era meglio il vuoto creatosi dopo l arrivo dei..flanellati?
    Eclipse sono anni che distillano sudore e melodia di buonissimo livello e francamente non condivido il parere dei nostri amici letteri,troppo critici verso questo new deal del hard melodico.
    Don t look back incitavano gli Dei dall Olimpo Aor..guardiamo avanti ed apprezziamo chi tiene accesa la fiammella del vero hard rock melodico!!!!

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Paolo, troppo buono! Sono quello che di certi generi ha scritto alle origini, ed ora ci prova a dire ancora la sua, quantomeno con l’approvazione di un pò di appassionati di vecchia data. Effettivamente gli artisti di questo articolo hanno raccolto varie critiche (espresse accuratamente), ma come ho risposto a Lorenzo, pur comprendendo le motivazioni, invito ad ascoltare con minor diffidenza, perché del buono c’è, inoltre non è che altri settori hard rock e derivati stiano granché meglio, all’attualità. Grazie, lo spirito positivo dobbiamo conservarlo, facendo le dovute considerazioni.

  • Fulvio ha detto:

    Ciao Beppe,
    Svezia fucina inesauribile di gruppi ineccepibilmente bravi ma che spesso tendono ad assomigliarsi troppo (i pezzi, i pezzi…come credo direbbe Giancarlo…).
    Sicuramente per il tuo articolo non hai scelto dei “parvenu” ma gruppi già affermati con un buon numero di album alle spalle, assortiti tra loro come varietà stilistica e degni di nota: l’ideale per farsi un idea del nuovo “movimento svedese” se vogliamo chiamarlo così.
    Personalmente le mie preferenze “Swedish” vanno a Work Of Art e W.E.T. (bello anche l’ultimo lavoro e sempre piacevole la voce di J.S.S.). Eclipse molto bravi a trovare i refrains catchy (loro “i pezzi” direi che li hanno), ma un po’ troppo “anthemici” e “bombastici” per i miei gusti.
    Discorso Giant…sentirò cercando di non essere troppo prevenuto ma concettualmente senza Dan Huff ed Alan Pasqua faccio fatica a chiamarli ancora così…(analogamente ad esempio agli H.O.L. senza Giuffria, che pur conservando J. Christian alla voce dopo i primi tre lavori sono scesi paurosamente di livello)…In più il nuovo cantante (Hilli) sicuramente è bravissimo ma contribuisce inevitabilmente a rendere il tutto meno Giant e più Perfect Plan (almeno dal poco che ho potuto sentire).
    In genere non mi piace questa “moda” di utilizzare lo stesso cantante per più gruppi diversi (es. Romero…)…è una cosa che spersonalizza molto, sempre a mio gusto ovviamente.
    Grazie come sempre per l’attenzione che dedichi ad ognuno dei nostri post e per l’articolo.
    Un saluto

    • Beppe Riva ha detto:

      Ehilà Fulvio. I tuoi argomenti sono numerosi; la scelta dei gruppi svedesi era dovuta ad uscite recenti raggruppate. Certamente W.E.T. citati nell’articolo e Work Of Art meriterebbero un discorso a loro riservato. Sul tema dei pezzi, o come preferisco dire, delle “canzoni” l’importanza è ovvia, ma i gusti soggettivi. Ad esempio gli inglesi hanno magnificato Oasis (poi N.Gallagher), Verve (poi R.Ashcroft), Franz Ferdinand o Blur senza preoccuparsi troppo se discendevano dai Beatles o dai Kinks; certamente costoro hanno saputo scrivere canzoni (io non vado necessariamente per compartimenti stagni). Se si parla di hard’n’heavy, ricordo un importante articolo su Sounds che sentenziava: Thin Lizzy scrivono canzoni, Black Sabbath compongono riffs…ma io adoro i Sabbath. Per quanto riguarda i cantanti, da sempre cambiano l’identità dei gruppi. Si pensi agli stessi Sabs con Gillan o Dio, ai Queen con Rodgers,oppure ai concerti degli stessi Sabs con Halford e degli AC/DC con Axl Rose. Inevitabile, preoccupiamoci della qualità del risultato, che può piacere o meno. Generalizzo perché non discuto le tue valide ragioni, puoi immaginare cosa io provi pensando agli House Of Lords senza Giuffria! Un saluto e un ringraziamento a te, spero sia chiaro il senso della mia risposta.

  • Samuele ha detto:

    Ciao Beppe!
    Questa volta non sono proprio totalmente d’accordo con te. A me questa ondata svedese non lascia nessuna emozione, anzi mi pare quasi costruita ad arte e ha un che di artificiale, ma cmq è sempre una questione di gusti.
    Per quanto riguarda i Giant invece sono rimasto abbastanza deluso dal disco e dall’approccio che non ritengo all’altezza del nome glorioso che portano. In particolare il vocalist , pur tecnicamente validissimo, non mi trasmette nessun feeling con quella sua eccessiva tendenza ad ‘urlare’, cmq affronterò prossimamente l’argomento sulla recensione del disco.
    Detto ciò cmq i miei complimenti per le tue sempre esaustive analisi.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Samuele, non ho mai preteso da nessuno di essere completamente d’accordo con me. Io credo che la Svezia abbia da tempo instaurato una propria tradizione rock; forse ha origini nel successo internazionale degli Abba, che hanno dimostrato di spiccare il volo da lì come campioni della musica pop, aprendo orizzonti anche a formazioni di tutt’altro genere. Non penso ci sia nulla di prefabbricato, nell’introdurre l’argomento ho sinteticamente descritto l’ampio raggio d’azione stilistico delle bande scandinave. Certamente possono non piacere, de gustibus…ma c’è un evidente background. Nemmeno io mi permetto di paragonarle ai classici del rock melodico americano (gli stessi inglesi, maestri in altre specialità, non ne erano all’altezza). Per i “New Giant”, permettimi di storpiare il nome, hai detto la tua giustamente, fermo restando che a mia volta ho chiarito alcuni concetti-base. Ti ringrazio per l’educato, differente punto di vista e per il riconoscimento dell’analisi.

      • Samuele ha detto:

        Era solo per rimarcare che di solito, anzi quasi sempre sono d’accordo con te…. d’altra parte almeno il 50% delle mie spese sono “colpa” tua 😂 e di ciò ti sarò eternamente grato.

  • Lorenzo ha detto:

    Buongiorno Beppe, sempre lieto di leggere i tuoi pezzi riguardanti l’AOR, ormai, tra le varie ramificazioni dell’hard rock, il reietto per eccelenza.
    Reietto anche perchè purtroppo le band diciamo post 1991, le poche band che provarono a perpetuare il genere, quasi mai si dimostrarono all’altezza, con pochissime eccezioni (al momento mi vengono in mente i Red Dawn di David Rosenthal, che pubblicarono un unico cd negli anni ’90).
    D’altronde ad oggi la situazione non è migliorata.
    Tu citi ed analizzi Giant, Crazy Lixx, Eclipse, Houston; tre band svedesi e una americana, dove effettivamente la Svezia negli ultimi anni continua a proporre acts che in qualche modo contribuiscono a rendere vivo il movimento.
    Pur essendo grande appassionato di AOR, devo purtroppo dire di non essere di contro un grande estimatore dei gruppi analizzati, pur conoscendole (un paio le ho anche viste dal vivo); troppo grande il divario in materia di songwriter, produzione, registrazione, valentia tecnica che inevitabilmente si registra tra le produzioni della goden age dell’AOR e le produzioni contemporanee. Probabilmente questione anagrafica, pur non avendo vissuto direttamente il periodo, ho fatto in tempo a recuperare se non tutto, quasi tutto il materiale storico (e storicizzato), e il confronto è impietoso.
    Ho apprezzato molto il tono con cui hai scritto di queste band, che pure sono assolutamente meritevoli.
    Ma anche tu mi pare che sottolinei una importante linea di demarcazione, invalicabile direi, in rapporto alle produzioni storiche della suddeta golden age; dico questo perchè troppe volte ho letto recensioni entusiatiche di AOR band contemporanee, del tutto fuori luogo e fuorvianti, ed è giusto che qualcuno metta ordine.
    Purtroppo l’AOR più di altri generi patisce mancanza di adeguati budget per la registrazione, l’ingaggio di produttori, compositori, turnisti di vaglia; quando si valutano dischi di questo tipo è secondo me fondamentale tenerne conto, per non dare valutazioni distorte.
    Specifico che quando scrivo che non sono un grande estimatore dei Giant, ovviamente mi riferisco ai Giant ATTUALI, certamente non alla band che produsse i primi due fondamentali dischi; si tratta di due gruppi diversi che non hanno praticamente nulla a che fare, basta dire che manca Dan Huff (e Alan Pasqua…).
    Ricordo che a suo tempo presi il cd del come back con Terry Brock, ma lo diedi in conto vendita poco dopo…
    Delle altre tre band la migliore mi pare siano gli Eclipse, ottimi anche dal vivo, ma purtroppo ribadisco che la stagione dell’AOR si è chiusa nel 1991. Quello che ascoltiamo ora è il più classico dei “vorrei ma non posso”… ci si può anche accontentare, ma è bene ricordarsi quali sono le radici e gli zenith di questo genere, e nessuno meglio di te Beppe ce lo può ricordare.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Lorenzo, parere molto dettagliato il tuo…La “linea di demarcazione” fra classico e attuale Hard/AOR c’è e si “sente”, l’ho scritto a chiare lettere e a proposito di sonorità etc., mi viene spesso in mente James Christian degli House Of Lords che ha ammesso di rimpiangere le “produzioni milionarie” degli anni ’80. Che i Giant siano un’altra band è stato altrettanto chiarito, ma preferisco questa versione rispetto alla precedente con Terry Brock. Ciò detto, un pò di ottimismo non guasta e spesso siamo vittime di PREGIUDIZIO, lo riconosco io stesso. Ascoltiamo con una certa superficialità i gruppi attuali (o le ultime formazioni dei gruppi classici) e concludiamo che tutto è già stato scritto e detto. Vero, ma questo vale per tutto il rock o quasi, vogliamo parlare dell’heavy metal che si rifà ai classici? Gli stessi grandi gruppi AOR come i Journey hanno addirittura ingaggiato un “sosia” del loro Steve Perry (miglior cantante di quel genere) ed i Foreigner sono il solo Mick Jones con tutt’altri musicisti. Meritano comunque rispetto, se le nuove proposte sono all’altezza. I gruppi post-2000 sono spesso liquidati frettolosamente. Se li si ascolta con buona volontà, si possono scoprire caratteristiche interessanti, e ci possono far compagnia piacevolmente. Questa almeno è la mia opinione. Non ho mai preteso di scovare nuovi Giuffria o Spys (ad esempio), ma nemmeno nuovi Led Zepp o Black Sabbath! Grazie della dedizione alla causa…

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