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Reliquie PROG

Leggende del Folk “gotico”

Di 24 Giugno 2022Giugno 28th, 202212 Commenti

“The Lady Of Shalott” del pittore preraffaellita John William Waterhouse, esposta alla Tate Gallery di Londra 

No, non voglio stupirvi con effetti speciali o con argomenti non troppo fedeli alla linea, tanto più che il folk “gotico” nato dalla fervida tradizione secolare delle isole britanniche, ha ispirato anche l’evoluzione hard’n’heavy, da Led Zeppelin, Thin Lizzy e Wishbone Ash agli Skyclad, fino alle successive generazioni dichiaratamente folk-metal.

Le origini risalgono alla seconda metà dei ’60, quando si era sviluppata una corrente musicale frutto della “contaminazione” fra il rock e la tradizione del folk inglese ed irlandese, che per circa un decennio scriverà pagine davvero indimenticabili, eclissandosi con l’avvento del punk. In linea con le attitudini avventurose dell’epoca, gli artisti folk-rock non si limitavano al mero revival, confrontandosi con il suono americano, dalla West Coast a Dylan (i basilari Fairport Convention, ma anche gli Unicorn ammirati da Dave Gilmour dei Pink Floyd), oppure realizzando raffinati intrecci stilistici con il blues ed il jazz (Pentangle) nonché fantastiche soluzioni acid-folk e folk progressive (dai Fresh Maggots ai Mellow Candle, assolute mirabilie underground!) spingendosi con successo fino alle porte dell’hard rock misticheggiante varcate dai Jethro Tull (gli Steeleye Span di “Below The Salt”, gli irlandesi Horslips: entrambi sfoggiavano riffs di chitarra insospettabilmente incisivi).
Tutto questo, ovviamente riassunto in rapida sintesi. Ma furono numerosi i menestrelli che nel fervore d’inizio seventies portarono avanti la linea del folk elettrico “contaminato” dalla contemporanea era progressive, senza assolutamente trascurare l’eredità lisergica post-1967. Fra i gruppi più leggendari, oltre ai Mellow Candle di “Swaddling Songs” (già celebrati sul Blog Fra le Top Rarities Prog & Heavy) sono assolutamente imperdibili i Trees di “On The Shore” e gli Spriguns (con l’esoterica cantante Mandy Morton) di “Time Will Pass”, ricchi di accenti spettrali, come gli espliciti Ghost (nulla a che fare con l’attualissima, diabolica creatura di Tobias Forge) di “When You’re Dead…”. Tipico dell’era prog-folk anche l’omonimo album dei Tudor Lodge, a sua volta con incantevole voce femminile ed una stupenda copertina del catalogo Vertigo formato poster che lo rende ultra-collezionabile. Senza pretendere di esser esaustivo, citerei inoltre il prog pastorale dei Gygafo di “Legend Of Kingfisher”, con reminiscenze Strawbs (il gruppo che mise in luce lo straordinario talento di Rick Wakeman). Infine, un irrinunciabile classico dell’underground folk, rilanciato nel 2010 fra le ristampe d’alto livello della Rise Above di Lee Dorrian: parlo dell’opera prima dei Comus, “First Utterance” (1971) certamente dotata di un carisma unico fra queste elusive specie musicali e davvero in sintonia con le atmosfere visionarie evocate dal neo-goticismo d’inizio settanta, inclusi testi scabrosi e disturbanti.
In quest’occasione ci addentriamo in altri “casi particolari”, auspicando di stimolare la curiosità di qualche lettore, appurato che in questi giorni non si naviga fra novità sconvolgenti o agognate ristampe…

Copertine dal sapore “antico” di Steeleye Span, Strawbs e Amazing Blondel

DANDO SHAFT: “Dando Shaft” (Neon, 1971)

Di gran tempra artistica furono senz’altro Dando Shaft, una delle formazioni per eccellenza dell’underground folk. Nacquero a Coventry nel 1968, come quintetto interamente acustico, su iniziativa di Martin Jenkins e Dave Cooper, un duo di cantanti & chitarristi già attivi nei circoli folk delle Midlands. Nel 1970 si trasferivano a Londra, dove entrarono in contatto con l’etichetta Young Blood, interessata alla riscoperta hippie della musica tradizionale, che nello stesso anno pubblicò l’album d’esordio “An Evening With Dando Shaft”, registrato in due soli giorni ma ricco di spunti pregevoli. Nella capitale inglese i musicisti incontravano anche la cantante Polly Bolton, che si univa a loro nell’ottobre 1970. Subito dopo venivano scritturati da Olav Wyper, responsabile artistico della Neon (sussidiaria progressive della RCA), già attratto dal gruppo quando era responsabile della mitica Vertigo. L’omonimo secondo album dei Dando Shaft usciva verso la metà del 1971, adornato dall’ennesima copertina-capolavoro di Keef (autore della favolosa fotografia del primo Black Sabbath): un’immagine melanconica che ritrae i cavalli di una giostra in rovina, sulla quale filtrano i raggi del sole…

Non meno suggestivo il contenuto musicale, inaugurato dalla splendida “Coming Home To Me”, che merita il paragone con i migliori Fairport Convention, sia nelle evoluzioni vocali della Bolton e di Martin Jenkins, sia nei virtuosistici intrecci acustici della strumentazione. Lo stesso si può dire di “Railway”, dove l’arrangiamento a base di violino e tablas riproduce fedelmente la dinamica di una locomotiva sulla ferrovia, mentre la voce della Bolton riecheggia più esplicitamente che altrove Sandy Denny… Da lì si dipartono una serie di brani impostati sul mandolino di Jenkins (“Wishpering Ned”, “Kalyope Driver”, “Waves Upon The Ether”) che conferisce alla musica un tocco gotico ma anche reminiscenze di folklore dell’Europa orientale, prese in prestito dalla tradizione popolare balcanica. Da sottolineare anche una squisita ballata, “River Boat”, che esalta come nessun’altra la purezza adamantina dei registri vocali di Polly. Da segnalare infine l’unico singolo “Sun Clog Dance” (recuperato come bonus in successive ristampe), tipica melodia folk cantata a più voci, che venne realizzato nel 1972 per la RCA, quando la Neon si era già estinta, abbattuta dall’insuccesso delle sue proposte musicali. La stessa sorte toccò ai Dando Shaft, che pur accolti dalla casa-madre RCA per il terzo album “Lantaloon”, non seppero confermare il valore artistico dei precedenti, frustrati dalla noncuranza del pubblico nei loro confronti. Risulterà effimera anche la reunion del 1977, senza la talentuosa cantante, e caratterizzata dalla svolta elettrica di “Kingdom”.
Ma “Dando Shaft” resta un momento essenziale della restaurazione folk negli anni Settanta.

MAGNA CARTA: “Songs From Wasties Orchard” (Vertigo, 1971)

Battezzati in omaggio allo storico trattato dei diritti costituzionali nel Regno Unito, Magna Carta erano un trio diretto dal cantante e chitarrista Chris Simpson, proveniente dallo Yorkshire e insediato a Londra; rappresentavano il versante più accessibile e legato alla forma-canzone del folk rock (come i più popolari Lindisfarne), senza spingersi in slanci sperimentali. Scritturati dalla Mercury nel ’68 e poi consegnati all’équipe Vertigo, realizzarono per l’etichetta a “spirale” gli album migliori, “Seasons” e “Songs From Wasties Orchard”, ai quali contribuirono musicisti di assoluto valore come Danny Thompson dei Pentangle e Rick Wakeman.

Prodotto dal rinomato Gus Dudgeon (fra i suoi clienti di spicco, Elton John), il terzo album “Songs From Wasties Orchard” faceva seguito alla timida apparizione di “Seasons” nella classifica inglese, e si presentava con una riuscita gimmik cover, che riproduceva una cassetta di mele apribile! Simpson, affiancato dall’altro chitarrista e vocalist Davey Johnstone (lascerà i Magna Carta per la più remunerativa collaborazione, proprio con Elton John) e da Glen Stewart, è autore di una bella collezione di canzoni, che sconfinano nelle abitudini americane soft-rock (“Wayfairing”) e country (“Country Jam”, con felici spunti di violino e mandolino). Le premesse erano però superiori: l’iniziale “The Bridge At Knaresborough Town”, con armonie vocali à la Simon & Garfunkel distese su un elegante tappeto acustico, impreziosito dagli accenti orientali del sitar di Johnstone, faceva presagire soluzioni intriganti, come la successiva “White Snow Dove”, animata da un’incantevole melodia. L’album resta comunque di gradevolissimo ascolto, specie quando la puntina scorre fra i solchi della sognante “Isle Of Skye”, o nel festoso territorio delle danze popolari di “Parliament Hill”.
Negli anni successivi, non sempre Magna Carta sapranno riproporsi agli stessi livelli, imperdibile però l’epica “Lord Of The Ages” (1973).

JAN DUKES DE GREY: ”Mice And Rats In The Loft” (Transatlantic, 1971)

Formazione davvero misconosciuta, trascurata persino da “Legend Of A Mind”, illuminante antologia underground (2002) della Decca, Jan Dukes De Grey sono invece una pietra miliare del lussureggiante scenario acid-folk inglese d’inizio ’70. Specialmente il loro canto del cigno, il secondo “Mice And Rats In The Loft”, merita di esser citato accanto a capolavori del genere quali “First Utterance” dei Comus, l’omonimo Fresh Maggots, “Moishe McStiff” dei C.O.B. ed “Heavy Petting” dei Dr.Strangely Strange.
Iniziarono come duo nel dicembre ’68; Derek Noy e Michael Bairstow erano due freaks originari dello Yorkshire, nonché polistrumentisti autodidatti. Un anno dopo approdavano alla Nova, etichetta progressive della Decca, che licenziava il loro primo LP “Sorcerers”; un lavoro frammentario, suddiviso in ben 18 brani ma già copioso di inventiva, seppur musicalmente scarno ed eccepibile a livello esecutivo. Il rapporto contrattuale con la Decca si estingueva subito dopo, e la formazione ampliata a trio (con l’innesto del drummer Denis Conlan) passava alla Transatlantic, etichetta notoriamente incline alla valorizzazione dell’emergente panorama folk-rock.

Jan Dukes De Grey cambiavano letteralmente pelle nello stile compositivo, ed il secondo album “Mice And Rats In The Loft” includeva solo tre lunghi brani, con la suite “Sun Symphonica” che sfiora i 19 minuti, occupando l’intera prima facciata!
I fraseggi iniziali, dove convergono flauto, violino ed una nervosa chitarra acustica, oltre alla strana voce di Noy, sono consanguinei del suddetto “First Utterance” dei Comus (entrambi i dischi risalgono al 1971) ed in particolare della spiritata “Song To Comus”. Altre affinità risiedono nella vena drammatica con accenti dark che aleggia sulle atmosfere musicali, e nella ricerca “sperimentale” delle dissonanze. Ma Jan Dukes danno ancora maggior spazio all’improvvisazione strumentale, dai tratti persino “free” quando i fiati sostenuti dal ritmo di percussioni esotiche prendono il sopravvento sul resto. Bellissima la soffice intro di “Call Of The Wild”, accompagnata dalla voce evocativa che riavvicina arie di folk pastorale; ma anche qui la spinta creativa non ortodossa del trio va oltre, con il sax sempre in evidenza, come gli eccentrici virtuosismi acustici. Infine c’è il titolo-guida, dove l’elettricità torna a scorrere febbrile sulle corde della chitarra di Derek Noy: espressione vocale ed umore dei suoni sono ricchi di pathos, quasi ad illustrare la “favola terribile” rappresentata in copertina, dove un’orda di giganteschi topi invade la soffitta di un delizioso cottage. Parrebbe una variazione sul tema della “House On The Hill” degli Audience, nella quale si celava un maligno “Re Topo” che attirava i viandanti trasformandosi in una donna affascinante, per sbranarli.
Nel suo genere, “Mice And Rats…” resta un’opera memorabile.

TICKAWINDA: “Rosemary Lane” (Pennine, 1979)

A suo tempo rimasi estasiato dall’ascolto di questo “solitario” dei Tickawinda, leggendaria rarità del folk inglese. Si trattava della riedizione CD Kissing Spell (2001) perché l’album originale, su etichetta Pennine, è fra le stampe private di maggior quotazione collezionistica; ma al di là di tale stima, la qualità artistica di “Rosemary Lane” è semplicemente incantevole. La riscoperta di questo mirabile tesoro underground, è avvenuta grazie al coinvolgimento di Clive Gregson; prima di suonare negli Any Trouble (incisero per la Stiff) e nella band di Richard Thompson, il chitarrista collaborò alla registrazione di “Rosemary Lane” su richiesta degli stessi Tickawinda, poiché il quartetto non aveva alcuna esperienza di studio. Contrariamente a notizie già tramandate, l’album non venne pubblicato nel ’75 ma nel 1979.

Mentre l’Inghilterra era in piena epoca new wave e si preparava al ritorno in forze dell’heavy metal, i Tickawinda erano l’attrazione del folk club Rose & Crown di Stalybridge, nella regione settentrionale del Chesire. Per loro il tempo si era fermato agli anni del folk revival, illuminati dai bagliori di Trees, Spriguns Of Tolgus, Midwinter, Tudor Lodge e soprattutto dei più famosi Steeleye Span, autori dei classici LP “Please To See The King” e “Ten Man Mop…”. La formula è la stessa, ma con due splendide voci femminili, quelle di Kath ed Allison, ed anche i cori condivisi con i chitarristi Jim e David sono degni del paragone con l’indimenticabile formazione di Maddy Prior e Tim Hart. I tredici brani, quasi tutti traditional arrangiati con squisita eleganza, sono senza eccezioni d’immacolata bellezza: le affinità con gli Steeleye Span si rivelano nelle rivisitazioni di “The Blackleg Miner” e “John Barleycorn” (quest’ultima però ben differente rispetto alla rilettura degli Span in “Below The Salt”, senza menzionare la celeberrima reinvenzione dei Traffic), ma anche negli arrangiamenti vocali di “Coalhole Calvary” e “Young Man”. Inoltre Kath e Alison sono assolutamente magiche nel canto a cappella di “She Moves Through The Fair” e “The Weary Cutters”, e nel rigenerare la tradizione musicale “gotica” britannica (alla maniera di Mr. Fox e Stone Angel) delle crepuscolari “Old Pendel” e “A Like Wake Dirge”. Infine la title-track, una grande interpretazione del brano che battezzò il settimo album di Bert Jansch, è l’ennesima gemma di questi emozionanti Tickawinda.

PERERIN: “Haul Ar Yr Eira” (Gwerin, 1980)

Nonostante i tempi di massimo fulgore e popolarità del folk-rock britannico si fossero virtualmente conclusi, quella scena ha inesorabilmente continuato a raccogliere accoliti insensibili alla caducità delle mode, che proseguirono l’opera di rivisitazione degli archivi di musica popolare, combinando il gusto della tradizione con sonorità attualizzate.
Degni di particolare menzione sono senz’altro i gallesi Pererin, che realizzarono un pregevole primo album, “Haul Ar Yr Eira”, nel 1980. Titoli, testi dei brani e nomi dei musicisti riprodotti in copertina sono interamente in lingua gaelica, dunque pressoché indecifrabili, ma l’alone magico che circonda la musica è rimarchevole.

In conformità con formazioni folk-rock di illustre passato, dai Pentangle agli Steeleye Span, anche Pererin avevano una loro musa, Nest, dall’ugola angelica e dal fascino garbato, lontano dagli artifici delle “dive” pop-rock. A lei bastavano le immacolate corde vocali per conquistare, nelle armonie condivise con il bravissimo partner Arfon, specialmente in “Titrwn Tatrwm”, dalle suadenti atmosfere classicheggianti, oppure nell’incantevole ballata “Ni Welaf Yr Haf”, punteggiata dal mandolino. Nell’accostarsi ad antichi codici musicali, Pererin usavano spesso un sorprendente taglio progressive; in apertura, la title-track inizia sulle note dell’arpa, per lasciar spazio a chitarra elettrica e sezione ritmica, che movimentano il clima musicale avvicendandosi ai fraseggi acustici (c’è il flauto in evidenza), con una spinta dinamica che richiama persino i primi Genesis, The Strawbs ed i misconosciuti Gygafo. Lo stesso si può dire del suggestivo finale “sinfonico” di “Pan Ddaw Y Brenin Yn Ol”, che chiude l’album suscitando grande rimpianto per le vicende di un gruppo che dieci anni prima avrebbe forse raccolto consensi meno marginali. “Haul Ar Yr Eira” resta comunque un’ammirevole gemma sulla frontiera folk-prog, a cui hanno fatto seguito altri due album ed apparentemente un quarto, introvabile, su cassetta.

12 Commenti

  • Lorenzo1962 ha detto:

    Ciao Beppe
    fortunatamente in questi ultimi anni il genere del Folk Rock è rifiorito e sono spuntate diverse band del calibro dei
    CIRCULUS , GALLEY BEGGAR, ME AND MY KITES, fino ad congiungersi ad un suono più Progressive di band come PURSON,AGUSA, MALADY, MAGICK BROTHER MYSTIC SISTER, THE KENTISH SPIRES…….
    insomma l’UNDERGROUND vive, basta cercare in rete e ti si apre un mondo senza tempo

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Lorenzo, complimenti per la conoscenza; quell’articolo era ovviamente dedicato ad un circolo di appassionati “di nicchia”, ma mi fa piacere che ci sia chi apprezza ed ha competenza in merito. Non pretendo “grandi numeri” di lettura proprio per la particolarità del tema, ma non sono qui per “vendere”…Quindi, tante grazie!

  • Medeo Olivares ha detto:

    Grazie Beppe per l’interessante articolo. Mi da lo spunto per andare a conoscere “Songs From Wasties Orchard”
    e “Lord Of The Ages” dei Magna Carta, di cui ho il solo “Seasons” che ritengo molto valido.

    • Beppe Riva ha detto:

      Ciao Medeo, se apprezzi “Seasons” che effettivamente è molto valido (anch’io scoprii i Magna Carta ascoltando quel disco), penso proprio che ti piaceranno anche i titoli citati. Grazie per l’attenzione verso questo genere ormai trascurato.

  • giorgio ha detto:

    Questi articoli Maestro Beppe, sono da me segretamente attesi, ma che pelle d’ oca, sento quasi uno sprofondar dell’ anima nel leggere di queste delizie musicali, nel guardare le copertine. Le tue parole, i racconti, riescono sempre a far immedesimare il lettore nel contesto storico. Con un giro di fantasia, sembra di ascoltare un violino nelle nebbie delle Cliff of Moher, o di crogiolarsi in un sentiero gallese verso Bron-Y-aur alla ricerca di un qualcosa vissuto solo con i sogni………. Non conosco tutte le band che citi, ma Pererin sono tra i miei preferiti, tre dischi bellissimi (non sapevo della cassetta !) il gallese e’ una lingua molto musicale. La loro musica riesce molto bene a ricreare il paesaggio che il Galles racchiude. Dalla forza delle sue valli impervie che lo isolava dai sassoni a quelle lingue di terra, dai nomi di santi impossibili, sul mare che sembrano voler cercare la liberta’ verso l’ Irlanda. Cosi come Gygafo, Loudest Wispher, Caedmon e tanti altri i tratti sono sognanti verso orizzonti di Giganti che con le loro lacrime hanno creato quei pugni di isole, sferzate dai venti oceanici e dalle preghiere di eremiti irrealizzabili. Il folk anni 70, ad un ascolto superficiale sembra essere sempre molto simile, vocal femminile, violino, una spruzzata elettrica, racconti epici, ma al suo interno ha avuto, come segnali anche tu, tante sfaccettature. Pentangle su tutti, ricordo i The Wodden O, pastorali e rumoristici, i Madden and harris psych, Trader Horne ecc. Grazie di aver segnalato dischi e band a me sconosciute, come Dando e jan dukes, il cui interesse dopo averti letto e’ massimo. Negli anni 90, con la moda della musica celtica e dell’ Irlanda, sono usciti dei dischi anche pregevoli di folk rock che si rifaceva a piene mani ai 70 britannici, mescolandolo con un prog medievaleggiante. questo a fatto si di portar a riscoprire il filone delle decadi precedenti. Come sottolinei, le copertine un tempo “parlavano” , erano parte di cio’ che ascoltavi, era quello che ti aspettavi e leggevi tra le note i colori, i giochi di luce e i messaggi che tu stesso voleci trovarci, come in un incantesimo di fate. Grande Maestro, scusami sono stato prolisso e parlo a ruota libero senza un filo serio, ma le emozioni musicali che hai raccontato sono onde troppo forti per seguire una logicita’.
    Un abbraccio.

    • Beppe Riva ha detto:

      Caro Giorgio, sei un poeta oltre che un competente! Aggiungo che i lettori molto preparati sono una stelletta d’appuntarsi per chi scrive e non mi aspettavo proprio che qualcuno commentasse citando Caedmon,Trader Horne, Madden And Harris etc. Cio’ dimostra che argomenti apparentemente ostici per molti suscitano in realtà curiosità e attrazione in altri. Il tuo è un graditissimo esempio. Ti ringrazio.

  • Alessandro Ariatti ha detto:

    Eccomi qua nuovamente, carissimo Beppe. Un articolo che ho letto con tanta curiosità e voglia di approfondire, visto che trattasi di un “genere” che ho solamente sfiorato con i gruppi da te citati nell’incipit (Zep, Lizzy, Skyclad). Grazie per l’input e complimenti per il pezzo che, come sempre, trasuda passione e poesia descrittiva. Ciao. Alessandro.

    • Beppe Riva ha detto:

      Caro Alessandro, suscitare curiosità e interesse nei lettori è una dote che chiunque si dedica alla scrittura spera almeno in parte di possedere, quindi la tua osservazione è senz’altro lusinghiera, grazie! Un saluto a te.

  • Samuele ha detto:

    Grande lezione di storia, su un genere che oggettivamente conosco pochissimo, Grazie!

    • Beppe Riva ha detto:

      Grazie anche a te Samuele, per la disponibilità di spingerti oltre i generi che invece conosci benissimo. Ciao

  • Paolo Rigoli ha detto:

    Caro Beppe, la storia della musica insegna che quando i principali media decidono di accendere i riflettori su un unico fenomeno (ska, punk, grunge,…), in quella fase gli effetti collaterali sono la scomparsa di tanti validi musicisti, che non trovano più ingaggi, o il trasformismo di qualcuno che riesce più o meno abilmente a riciclarsi. Per fortuna alcune etichette specializzate e alcuni giornalisti illuminati come te mantengono viva l’attenzione sul fecondo sottobosco di generi come il folk, il prog o l’hard rock. È sempre un grande piacere scoprire “nuovi” gruppi, anche e soprattutto quando risalgono a decenni addietro. Allo stesso tempo penso che servirebbe essere molto attenti anche alle nuove uscite affinché non diventino anch’esse gemme da riscoprire con molto ritardo. Un abbraccio, Paolo.

    • Beppe Riva ha detto:

      Caro Paolo, ringrazio per le considerazioni iniziali ma è giusto porre l’accento sul monito “critico” che hai esposto in chiusura. Hai ragione, sarebbe un peccato trascurare attuali talenti, ma questo a mio giudizio è prevalentemente compito delle nuove generazioni, con i mezzi di ascolto “moderni”. Io resto legato a metodi di conoscenza d’altri tempi e non ho la pretesa di dire la mia su tutto, troppo complicato. Cerco di fare ciò che meglio mi compete. Inoltre i professionisti della musica hanno accessi promozionali di ben altra portata. Giusta segnalazione comunque. Un abbraccio a te.

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