David Tice (Buffalo) con eloquente T-Shirt
Non mi preoccupa che il titolo di questo scritto non faccia “audience”; forse solo la citazione dell’inaffondabile Titanic di quegli oceani, AC/DC, può attirare qualche lettore in più, ma poco importa. Negli ultimi tempi mi sono prevalentemente occupato di artisti ben noti, ma il compito di chi scrive, se distante da logiche commerciali, è anche riesumare nomi da tempo sepolti nell’underground, e pazienza se di nessun appeal per il pubblico di massa (che non può essere quello di un Blog!).
Ho la presunzione di pensare che in questo circolo di “iniziati” di lunga data, ci possa pur esser la curiosità di (ri)scoprire qualche impronta andata cancellata nel tempo. Se non sarà così, il mio sarà solo un esercizio di retorica.
Ben poco si sapeva del cosiddetto OZ rock prima del boom dei degli Easybeats, pionieri della fiorente scena di Sydney con il successo internazionale del 45 giri “Friday On My Mind” (1966), tradotto anche in italiano (“La Follia”) dai Ribelli del venerato Demetrio Stratos. I cinque Easybeats erano tutti nativi europei, e due di essi, Harry Vanda & George Young, furono determinanti per l’affermazione dei “migranti scozzesi” AC/DC, di cui produssero tutti gli album prima di cedere il testimone a Mutt Lange in “Highway To Hell”. Ovviamente George, anch’egli chitarrista, era il fratello maggiore degli esuberanti Angus e Malcolm. Sulla scia dei conquistatori AC/DC, l’Australia diffonderà lusinghieri fenomeni d’esportazione: in ambito hard rock, Rose Tattoo vissero momenti di notevole fama in Gran Bretagna; generati da una loro costola, gli Heaven si trasferiranno in America senza soverchie fortune.
Cheetah, sinonimo davvero improprio delle attraenti sorelle Hammond, solcarono come meteore il palco di Reading 1982.
Melbourne invece diede i natali ad una perenne istituzione del rock progressivo, Daevid Allen (Soft Machine, Gong), scomparso nel 2015.
Da segnalare nei Seventies, le avvisaglie proto-punk dei Radio Birdman; questi si evolveranno nei New Race, coinvolgendo addirittura Ron Asheton degli Stooges e Dennis Thompson degli MC5! Definitivamente punk furono The Saints : il loro primo album “(I’m) Stranded” del 1977, è un evergreen per i cultori del genere.
Dopo il successo su larga scala degli INXS – a loro volta di Sydney – negli anni ’80, ricordiamo in estrema sintesi exploit di Baby Animals, Jet, Wolfmother e dei sempre rampanti Airbourne. Ma una menzione a sé merita la superba voce di Jimmy Barnes, ennesimo scozzese “naturalizzato” aussie, affermatosi nei Cold Chisel, quindi protagonista di una notevole carriera solista: imperdibile il classico AOR “Freight Train Heart” (Geffen, 1987).
Non siamo qui a riepilogare la vastità degli eventi storici, semplicemente a dischiudere uno spiraglio di luce su precursori assai meno noti, che hanno contribuito a gettare le fondamenta del rock nella terra dei canguri.
La carica dei BUFFALO
Originari di Sydney, Buffalo figurano di diritto nella gerarchia delle formazioni-culto per stoner rock addicts, fra memorie di Captain Beyond, Sir Lord Baltimore, Josefus, Bang, Granicus, e davvero non potrebbe esser altrimenti per chi concepì un brano dal titolo “Dune Messiah” nel 1974, almeno vent’anni prima che si parlasse di desert rock.
Buffalo hanno pubblicato cinque album fra il 1972 ed il ‘77, e passano alla storia come i prime-movers assoluti dell’hard’n’heavy australiano, precedendo i ben più popolari AC/DC, nati nella stessa città.
L’opera prima, “Dead Forever…” (1972), risente della moda dark fomentata dai Black Sabbath, gruppo di punta della leggendaria Vertigo che scritturò anche i Buffalo; l’illustrazione di copertina, esibisce infatti un volto sfregiato nell’orbita vuota di un teschio! Ma è soprattutto la proposta musicale a carpire l’attenzione, perché fin dal brano d’apertura, “Leader”, si coglie un primordiale tentativo d’evoluzione lisergica dell’ambiente ancestrale dei Sabbath, con la voce carica d’echi di David Tice che infrange la cortina fumante del suono. Anche la canicolare versione del classico dei Free “I’m A Mover”, protratta fino alla soglia degli undici minuti, lascia intuire un superamento degli schemi rock-blues, attraverso le inequivocabili risorse allucinogene espresse dai deraglianti assoli del chitarrista John Baxter. C’è spazio pure per la melodia in una ballata dall’atmosfera bucolica, “Forest Rain”, che riecheggia momenti dei primi Wishbone Ash; infine, la title-track “Deaf Forever…” è un autentico cavallo di battaglia, che i Messers Ozzy Osbourne e Tony Iommi non disdegnerebbero di annoverare nel loro songbook.
Il quartetto suscitò immediate attenzioni anche in mercati recettivi come la Germania e la Francia, e sviluppò questo stile nel successivo “Volcanic Rock” (1973), evidenziando subito in “Sunrise” la capacità di comporre brani di subitaneo effetto, dote rara fra gli stoners degli anni ’90, che finirà per nuocere a quel movimento. “Freedom”, forgiata su un mid-tempo cadenzato, accende un’atmosfera torrida come il clima del Gran Deserto Sabbioso (Sydney è ben distante, sulla Costa Est australiana, ma concedetemi la licenza poetica). Inoltre la chitarra blues affondata nell’acid rock di “The Prophet” sembra preludere al Josh Homme d’epoca Kyuss. Per finire, sbalordisce l’Intro di “Pound Of Flesh”, con la solista carica d’echi e assolutamente lisergica, prima di innestare un riff demolitore alla “Symptom Of The Universe” dei Sabbath.
Anche il vocalist David Tice esibisce tonalità ruvide e profonde, riuscendo ad avvincere senza ricorrere ad estetismi superflui per la stirpe riottosa che rappresenta.
Il titolo sarcastico del terzo “Only Want You For Your Body” (1974) si rispecchia nella famigerata copertina, che ritrae una donna obesa “torturata” dai musicisti. Non certo un esempio di buon gusto (le allusioni sessiste fanno seguito all’illustrazione di “Volcanic Rock”), mentre il disco è pienamente in linea con gli abbacinanti livelli di intensità elettrica dei precedenti; rispetto ad essi, la musica tende maggiormente verso forme boogie-rock arroventate ma nient’affatto semplicistiche. Subito indirizzate in questa direzione “I’m A Skirt Lifter…” e “What’s Going On”, in apertura delle rispettive facciate e puntualmente spronate dagli assolo al calor bianco del chitarrista John Baxter. Anche in quest’occasione il quartetto paga il suo tributo ai maestri del rock-blues britannico, e dopo il remake di “I’m A Mover” dei Free sul debut-album, stavolta viene omaggiato il “velocista” di Woodstock e leader dei Ten Years After, Alvin Lee, con una robusta versione di “I’m Coming On”.
Inoltre, proprio su “Only Want You…”, Buffalo forgiano il loro anthem “Dune Messiah”, che anticipa inconsapevolmente di vent’anni il dilagare del desert rock, a tutt’altra, tropicale latitudine: ”Desert King, rider of the worm, can you foretell the coming of the storm…”, recitano i profetici versi. I passaggi strumentali più vigorosi risiedono però nei sette minuti di “King Cross Ladies”: il pezzo si accende sulle accelerazioni della solista di Baxter, sospinte dalla martellante sezione ritmica. La polverosa corona di “Sovrani del Deserto” non era di nessun altro, in quell’epoca…
La formazione di Sydney, complici avvicendamenti di formazione, concludeva la sua parabola con “Mother’s Choice” (1976) e “Average Rock’n’Roller” (1977), dischi inferiori alle aspettative determinate dalla trilogia iniziale.
Esaurito il ciclo dei Buffalo, il cantante Dave Tice ed il batterista Paul Balbi cercheranno fortuna nei pub-rockers inglesi Count Bishops, mentre il bassista Peter Wells sarà fra i fondatori dei celebri mercanti di boogie, Rose Tattoo, che nei tempi d’oro rivaleggiarono in popolarità addirittura con gli AC/DC. Tice è poi tornato in Australia per proseguire le sue vicende artistiche e nel 2022 è uscito un nostalgico Buffalo Revisited: “Volcanic Rock Live”.
Nei momenti di maggior furore elettrico della loro discografia, Buffalo hanno dimostrato come impartire lezioni illuminanti a qualsiasi formazione attuale ispirata all’hard rock anni ’70.
N.B.: Le note di presentazione della ristampa Akarma (2003) di “Dead Forever…” sono state affidate con soddisfazione al sottoscritto, e qui parzialmente riportate.
BLACKFEATHER sulle montagne della follia
Altro nucleo storico del rock australiano, Blackfeather fecero la loro apparizione sulla scena di Sydney nel 1970, e nel primo lustro dei Seventies esaurirono le loro vicende discografiche, dopo aver pubblicato tre LP su etichetta Festival, “At The Mountains Of Madness”, “Boppin’ The Blues” e “Live-Sunburry”.
Le maggiori credenziali del quartetto sono legate al debut-album, un avventuroso saggio di hard rock underground irrorato da venature blues, prog e psichedeliche. Ispirata al racconto – a mio giudizio – più avvincente del mago dell’horror H.P. Lovecraft, l’opera si dischiude proprio sull’anfetaminico titolo-guida, giocato sulla febbrile chitarra heavy fuzz di John Robinson: vi si riconosce il flusso inquietante che impregna le pagine dello scrittore di Providence, anche nella prolungata recita iniziale e nella voce di Neale Johns, ammantata di follia.
Subito dopo, le inclinazioni barocche di chitarra acustica e flauto ed un vibrante arrangiamento d’archi, incrementano il tasso folk-progressive di “Seasons Of Change”.
Lo stesso si può dire di “Mangos Theme”, dove la chitarra solista conduce una danza dal gusto esotico: ad essa subentrano i violini, in un crescendo di vivida energia espressiva. Domina invece l’heavy-blues di ragguardevole orditura nell’estesa “Long Legged Lovely”; nel finale, “The Rat Suite” è un test di resistenza di quattordici minuti in cinque movimenti: manifesta pienamente la selvaggia natura di questi scontrosi australiani, che ad un certo punto si sbarazzano degli schemi rock-blues per gettarsi a capofitto in un’improvvisazione lisergica, farcita di effetti deformanti.
“At The Mountains Of Madness” non tradisce il suo titolo, e sviscera un lessico elettro-totalizzante, mantenendo le distanze dalle forme più palesi.
Spariti nella seconda metà anni ’70, sono riapparsi sulle scene nel Terzo Millennio (…dei revival).
KAHVAS JUTE: un "Dirigibile" a Sydney?
Quando i Kahvas Jute realizzarono nel 1971 l’album d’esordio “Wide Open” (Infinity/Festival), in Australia si convinsero di aver scoperto i loro Led Zeppelin, destinati ad una carriera più prestigiosa rispetto ad altre valenti formazioni delle stesse radici, quali Galadriel e Master’s Apprentices. Invece “Wide Open” restò l’unico LP del quartetto di Sydney e, comunque fra i più ricercati del rock di quelle lande. Leader dei Kahvas Jute era Dennis Wilson, vocalist, compositore e soprattutto brillante chitarrista influenzato da Jeff Beck; a lui spettò la scelta del singolare nome del gruppo, che non doveva assomigliare a nessun altro: così Wilson accostò casualmente due vocaboli tratti da un vecchio volume, “Pears Cyclopaedia”, ottenendo l’effetto desiderato. Gli altri musicisti erano Tim Gaze (chitarra, piano) e Donnie Davidson (batteria), entrambi ex-Taman Shud, ed il bassista Bob Daisley, lui sì destinato a maggior fama nella scena hard rock e heavy metal, a fianco di Ritchie Blackmore (Rainbow), Ozzy Osbourne, Uriah Heep, Gary Moore etc.
Le coordinate soniche dei Kahvas Jute sono più classiche, riecheggiano il Jeff Beck Group ed i Wishbone Ash; lo stile dell’ex-chitarrista degli Yardbirds è avvicinato in “Odyssey” e nelle figurazioni ritmiche jazzate di “Up There”, mentre le armonie chitarristiche dagli influssi folk dei Wishbone Ash di “Argus” si ritrovano in apertura della seconda facciata, in “Steps Of Time” e “Twenty Three”. L’estensione melodica di “Free” instaura un mood vagamente zeppeliniano; episodi più inclini verso l’heavy rock risultano invece “She’s So Hard To Shake” e “Parade Of Fools”, un incisivo showcase della chitarra wah-wah di Wilson. Dopo il repentino scioglimento del gruppo, questi si impegnerà in una carriera solista, senza grande successo. Anche i Kahvas Jute hanno tentato un fugace rilancio negli anni 2000.
McPHEE, in omaggio ai "Classici"
Nessuna relazione con Tony McPhee, storico leader dei Groundhogs, per questa oscura formazione australiana, anch’essa di Sydney; forse a lui si ispirò per battezzarsi ed incise l’unico album omonimo nel 1970, su un’etichetta altrettanto sconosciuta, Violets Holiday. Impropriamente catalogati nel filone heavy-progressive, McPhee si dimostravano a proprio agio in una notevole varietà di stili, come si evince dalle differenti cover versions che costituivano l’ossatura del disco, muovendosi con disinvoltura da “The Wrong Time” degli Spooky Tooth alle ben note “I Am The Walrus” dei Beatles e “Southern Man” di Neil Young. Nelle riletture i cinque McPhee esibivano una personalità interessante, anche per la presenza catalizzatrice della voce femminile di Faye Lewis, ma l’esigua componente di composizioni originali (2 su 7) li rende inclassificabili, tanto più che “Sunday Shuffle” sfoggia una robusto sound con vaghe reminiscenze degli Who, mentre “Out To Lunch” è un dilatato strumentale jazz-rock con la sferzante solista di Tony Joyce in grande spolvero. In apertura “The Wrong Time” svetta fra gli episodi più riusciti: prende le mosse da un’ipnotica base heavy-blues ed é caratterizzato da melodie vocali d’effetto della Lewis, mentre Joyce è subito in evidenza con il suo focoso axework; lo stesso chitarrista non è altrettanto brillante nel ravvivare il pathos degli stridenti fraseggi di “Southern Man”.
“Indian Rope Man” (di Ritchie Havens) è invece la miglior palestra d’esercitazione per l’organo Hammond di Jim Deverell, che si ricollega magistralmente alla versione dello stesso brano eseguita da Brian Auger, con Faye nelle vesti di Julie Driscoll. Sulla seconda facciata spicca uno stralunato rifacimento slow della beatlesiana “I Am The Walrus”. Una cover-band davvero inusuale o qualcosa di più?
Dopo lo scioglimento, il batterista inglese Terry Popple, già con i Tramline (di Micky Moody e Paul Rodgers!) negli anni ’60, tornerà in patria per ricongiungersi a Moody, futuro Whitesnake, negli Snafu.
Null’altro è accaduto per emettere un verdetto definitivo sui McPhee, extravaganza sotterranea di un mondo distante nel tempo e nella geografia, su cui è stimolante indagare.
Ciao Beppe,
Inizio subito con i ringraziamenti per queste “visite guidate” nei meandri oscuori di certo hard rock.
La mia prima riflessione è stata che, pensandoci, non mi sono mai troppo “alimentato” con la musica aussie…mai graditi troppo, ad esempio, gli AC/DC e non mi vengono in mente altri gruppi “storici” di quella provenienza che mi abbiano particolarmente entusiasmato. Attualmente trovo invece molto interessanti i Caligula’s Horse, esponenti del nuovo corso di certo prog metal.
Sommando alla mia scarsa “predisposizione australiana” anche le mie lacune sui ’70s ecco che il tuo articolo mi permette ancora una volta di scoprire qualcosa di “vecchio ma nuovo”: le mie scoperte preferite!
Ho trovato interessantissimi i Buffalo forse per le chiare influenze sabbathiane…
Domanda: ma la ristampa “Only want you for your body” di Akarma è disponibile solo in vinile? Ho diversi CD Akarma in collezione e non mi dispiacerebbe integrare…
Grazie ancora,
Un saluto!
Ciao Fulvio, mi è sempre piaciuto rovistare nel passato, quindi se qualche lettore (come nel tuo caso) gradisce mi fa piacere. Mi risulta che l’Akarma abbia ristampato i Buffalo solo in vinile, mentre l’australiana Aztec Records (da non confondere con l’omonima etichetta inglese) ha riedito e rimasterizzato tutti i 5 album dei Buffalo in digipak CD (anche “Wide Open” dei Kahvas Jute). C’è inoltre una ristampa della Second Battle di “Volcanic Rock” e “Only Want You…” in unico CD digipak, ben fatta. Grazie dell’interesse.
Grazie della risposta e delle infos.
Andrò a caccia della ristampa “Second Battle”!
Buongiorno Beppe.
Non ho contezza dei gruppi che vai ad approfondire, vedrò di cercare qualcosa, non se ne sa mai abbastanza.
Sicuramente l’Australia ha sempre espresso ottime proposte, percentualmente quasi tutte di valore in rapporto al numero di artisti che effettivamente si sono affacciati alla ribalta internazionale.
A parte AC/DC, sufficientemente celebrati ovunque, mi preme sottolineare quanto Jimmy Barnes (che citi) sia un cantante che purtroppo non ha mai ottenuti i riscontri meritati; così come i Wolfmother che dopo un inizio di carriera promettente si sono un po’ sgonfiati, lasciando lo scettro di migliori epigoni zeppeliniani ad altri e forse più vendibili complessi.
Grazie per la costanza e il lavoro di recupero di nomi che altrimenti sarebbe difficile trovare citati altrove.
Ciao Lorenzo, la tua conclusione, di cui ti ringrazio, sottolinea uno degli scopi che mi prefiggo con il blog. Per quanto riguarda Jimmy Barnes e Wolfmother, condivido senza dubbio le tue valutazioni. A risentirci.
no Beppe, nessun sterile esercizio di retorica, ma fonte di conoscenza per chi ha sete di estendere la propria … ed io sono in prima fila! conosco e posseggo i primi 3 album dei Buffalo (di cui ricordo scrivesti anche in passato su Thunder) e l’opera unica dei McPhee, mentre dovrò ora approfondire la conoscenza degli altri due gruppi … e a proposito di band australiane, credo che una menzione la meritino anche i grandi The Angels/Angel City, sei d’accordo?
Ciao Giuseppe, non lo ricordavo ma a pensarci bene probabilmente scrissi su Thunder dei Buffalo. Complimenti per la memoria. Sugli Angel City certo che avrebbero meritato una menzione. Sembra che in Australia fossero secondi dietro ai soliti (stra)noti ed i Great White hanno ripreso un paio di loro brani. Anche Alessandro mi ha riferito dei Kings Of The Sun. Più che legittimo, ma una breve introduzione all’argomento non è un libro o un’enciclopedia, risente delle memorie di quel momento. Ciò detto, anch’io come appassionato sono dispiaciuto quando non appare nel contesto pertinente un nome fra i miei favoriti. Quindi capisco il desiderio di indicare i vostri. È indice di passione e competenza. Grazie.
Grande Beppe. Inutile dire che, Easybeats, Rose Tattoo, Jimmy Barnes, Baby Animals, Airbourne e Wolfmother a parte, dei gruppi che approfondisci non ne conosco mezzo. Approfondirò con attenzione! Ciao! PS: io ricordo con molto piacere anche i Kings Of The Sun, che vidi al Monsters 1988 ed il cui primo album, a mio parere, è bellissimo.
Ciao Alessandro, sapevo in questo caso di non indirizzarvi su piste molto battute. Certo, nel gran calderone di fine anni 80 c’erano anche i Kings Of The Sun, che non ebbero molta fortuna nonostante gli ottimi presupposti di un tour di spalla ai Kiss. Il video di “Black Leather”, come tipico dell’epoca, esibiva grazie femminili. Oggi sarebbe “riprovevole”. Grazie del puntuale supporto.