In questi chiari di luna mi è capitato di ricollegare l’illustrazione di copertina di “Wonderworld” degli Uriah Heep, ossia i musicisti effigiati come altrettanti monumenti sul proprio piedistallo, agli innumerevoli e valorosi caduti sulle strade del rock negli ultimi mesi. Ho immaginato le statue di ognuno di essi, frantumarsi a terra, sospinte dal fatale destino che accomuna tutti i mortali, comuni o famosi che siano.
Verso la metà di ottobre se n’è andato Dan McCafferty, cantante dei Nazareth che con la sua voce roca ha anticipato i ben più rinomati Bon Scott e Brian Johnson degli AC/DC; alla fine del mese è stata la volta di Jerry Lee Lewis, antesignano del rock’n’roll e del suo stile di vita ribelle.
In novembre l’ecatombe proseguiva, con Nik Turner, leggendario sassofonista degli Hawkwind, e Wilko Johnson, chitarrista molto amato in Inghilterra, dove rese popolare il pub-rock con i Dr.Feelgood. L’ultimo giorno del mese è stato fatale a Christine Perfect McVie, che si era affacciata timidamente sulla scena blues degli anni ’60 nei Savoy Brown, per assurgere poi fra le stelle di prima grandezza con i Fleetwood Mac. In dicembre una tregua parziale, ma scompaiono Harvey “Burley” Jett, chitarra solista dei miei diletti rockers del Sud, Black Oak Arkansas, ed il più noto Kim Simmonds, storico leader dei Savoy Brown poc’anzi citati (omesso nella prima stesura, chiedo venia!).
Fra il 10 ed il 12 gennaio, ferali notizie in rapida successione. Tramortisce chiunque la morte di Jeff Beck, chitarrista unanimemente giudicato fra i più grandi e qualitativamente longevi in assoluto. Giunge alla fine della pista anche Robbie Bachman, batterista dei Bachman-Turner Overdrive, canadesi più famosi dei Rush fino al 1975. Inoltre, ed inevitabilmente con maggior risonanza mediatica, il prematuro decesso di Lisa Marie Presley, che visse di accecante luce riflessa, essendo figlia del Re Elvis.
Infine, è d’attualità il mesto annuncio che la musica è finita anche per il venerato David Crosby. Di lui e di Jeff Beck, Giancarlo ha già scritto un epitaffio da par suo.
Addio al leader della più grande Underground band di sempre: Tributo a Tony Hill & High Tide
High Tide: (da sx a dx) Peter Pavli, Roger Hadden, Simon House & Tony Hill
La stampa ed il web si sono dunque infittiti di questi ed altri necrologi, ma ciò che mi rattrista, al di là dello scontato risalto dovuto ai defunti di prestigio, è che sia passata quasi inosservata, la fine di uno degli straordinari eroi della mia personale galleria: il chitarrista e cantante Tony Hill, nocchiero del vascello fantasma High Tide nel mare burrascoso delle rivoluzioni musicali di fine anni ’60. Periodicamente riascolto con crescente emozione frammenti dell’eredità musicale di questo gruppo incommensurabile; dunque, ricercando aggiornamenti su internet, mi ero imbattuto in un post che svelava la scomparsa di Tony, l’8 dicembre scorso.
Difficile restituire oggi l’idea di ciò che rappresentarono gli High Tide all’epoca della loro apparizione, quando erano considerati la formazione più heavy del circuito londinese, e non solo. Il quartetto di “Sea Shanties” (opera prima dell’ottobre 1969, su Liberty) suonava ad un volume parossistico, non meno frastornante dei pionieri proto-metal californiani Blue Cheer di “Vincebus Eruptum”. Ma ciò che rendeva UNICI ed inimitabili gli High Tide era la sbalorditiva commistione di fisicità del suono ed esperimento, di musica viscerale e cerebrale. Paradossalmente, divennero più leggendari in Italia che in patria, fattore riconosciuto anche da superesperti inglesi, ma che non stupisce più di tanto. Nell’era progressive, il Bel Paese riconobbe alla stregua degli artisti più affermati, rivelazioni quali Van Der Graaf, Gentle Giant e gli stessi Genesis, prima che si imponessero in Inghilterra.
Nell’essenziale guida all’Underground & Progressive (1967-1975) “Prophets & Sages”, l’autore Marc Powell – fondatore dell’etichetta specializzata in ristampe Eclectic Discs, in seguito Esoteric – celebra entrambi gli album degli High Tide fra i classici di quegli anni, “in anticipo sui tempi in termini di creatività”: in altre parole, un ascolto assolutamente prioritario.
A mio avviso, High Tide sono stati la più grande formazione underground di ogni tempo! Ma la saga di Tony Hill inizia ancor prima, grazie alla sua militanza in una banda da culto del rock psichedelico, The Misunderstood. Provenivano da Riverside, California, ma furono scoperti da un disc jockey inglese in missione oltreoceano, tale John Ravenscroft, destinato al rango di autorità assoluta del rock a nome John Peel! Diventa il loro mentore e li convince ad emigrare a Londra in cerca di fortuna nel 1966. Lì ingaggiano un giovane chitarrista originario di South Shields (Tyne and Wear), già attivo con The Answers, proprio Tony Hill. I riverberi acidi ed elettrizzanti dei singoli “I Can Take To The Sun” e “Children Of The Sun” – quest’ultimo un tributo agli Yardbirds – li rendono protagonisti di innovativi spettacoli al Marquee, ed una fondata leggenda vuole che i Pink Floyd abbiano tratto ispirazione dai medesimi! Ma i Misunderstood restano una meteora abbacinante che esaurisce in fretta la sua parabola, gli acetati riprodotti sull’album postumo “Before The Dream Faded”, edito da Cherry Red nel 1982 ed entusiasticamente accolto dagli specialisti, ne sono vivida testimonianza per i posteri.
Tony Hill non si ferma qui, affianca un ancor sconosciuto David Bowie nel trio Tourquoise, ma è destinato a veleggiare su tutt’altra cresta dell’onda, purtroppo per lui non di successo…Fonda infatti High Tide, l’”Alta Marea” del rock e mai denominazione sarà più giustificata! Accanto a lui Simon House, violino elettrico come si potrebbe immaginare solo con una gran dose di fantasia, a tratti distorto e sibilante, quasi fosse una seconda chitarra solista & antagonista, oltre alla ritmica procellosa, che si arrampica su tempistiche impervie, costituita da Peter Pavli, basso, e Roger Hadden, batteria.
Esce così “Sea Shanties”, i Canti del Mare, e nasce la favola terribile degli High Tide, profeti dell’”orrore marino”. E’ scoccata l’ora del dark sound di infausta memoria per i detrattori, e quell’incredibile copertina di Paul Whitehead, che di lì a poco illustrerà i classici dei Genesis (ma il suo esordio con “Trespass”, non era ancora avvenuto!) stimolava idealmente suggestioni spaventose. Nulla serviva a definire la formidabile potenza evocativa della musica stridente, che richiama la forza della natura scatenata nelle sue manifestazioni primordiali e selvagge, di quell’invenzione artistica di Whitehead, una delle più impressionanti trasposizioni suono-immagine mai realizzate.
Lo scenario è quello di una “palude marina” tetra e stagnante, infestata da creature grottesche e ripugnanti, dove si incaglia un antico galeone, arenato in quell’aberrante bordo del globo terrestre. Il disegno sembra perseguire la trama di alcune delle più terrificanti folgorazioni narrative di H.P. Lovecraft, “Dagon” oppure “Il richiamo di Cthulhu”, e questo lo scrissi ben prima che i Metallica vi si ispirassero, per suggellare con un imponente brano strumentale il secondo album “Ride The Lightning”. Così come azzardai su Rockerilla che certi fendenti della chitarra solista di Fast Eddie in “Overkill” richiamavano lo stile di Tony Hill. L’idea mi fu carpita quando una rivista ben più diffusa si occupò dei Motorhead. In fondo, non c’era da stupirsi; gli High Tide si esibirono dal vivo con la primitiva versione degli Hawkwind (chiamata Group X) e negli Hawkwind suonarono sia Lemmy che Simon House. Tutto ha un senso compiuto…
Ma torniamo al suono indicibilmente tormentato che regna sovrano nei solchi di “Sea Shanties”. Sospinti dalla loro stessa iconografia (e all’interno della copertina apribile, un altro vascello esibisce sulla prua un busto di donna a seno nudo, e veleggia sui flutti nella notte…), gli High Tide finivano per collocarsi in un’ala ben precisa del traumatizzante museo degli orrori sotto l’egida del dark sound: quello delle sensazioni più inquietanti suggerite dalle inesplorate profondità oceaniche, dove permane una grandissima riserva di mistero. Realisticamente il fulcro della peculiare, mostruosa creatività di questo Leviatano del rock non sembrava di tale natura leggendo i testi, conosciuti solo grazie a ristampe giapponesi del 1993: liriche oscure, talvolta sinistre ed ermetiche, ma nessun “coro marinaresco”. Sappiamo però che la vera arte, e tale era la musica del gruppo inglese, può trasfigurare anche la realtà ed è stato oltremodo seducente farsi rapire da quell’immaginario, comunque avvallato anni dopo in un’intervista dall’artefice Tony Hill.
Un mese prima di incidere “Sea Shanties” (fra giugno e luglio ’69) i quattro High Tide erano già riuniti negli stessi studi Olympic di Londra, per le sessioni dell’unico album del loro produttore Denver “Denny” Gerrard, “Sinister Morning”, che uscirà solo nel gennaio 1970 per l’etichetta da collezione Deram Nova, ma consacrato al versante soft della psichedelia.
“Futilist’s Lament”, che introduceva “Sea Shanties”, concorre invece al titolo di brano d’apertura più potente dell’intero decennio ’60: è un precipitare rapido ed inesorabile negli abissi spalancati dall’agguato della chitarra di Hill – compositore di tutto il repertorio – che fende l’angoscioso coacervo ritmico con le sue sonorità raggelanti, mentre la voce è quella di un Jim Morrison trasfigurato dall’incubo. Gli fa eco, recitando a sua volta un ruolo di primo piano, il violino insidioso ed acuminato di House.
Poi l’immane strumentale “Death Warmed Up”; non ci è dato sapere quale trip allucinogeno abbia generato tale corrente demoniaca che sfiora i dieci minuti, trascinata da feroci schermaglie fra chitarra e violino, morbosi sfoghi solistici che inducono al trasalimento, in bilico fra cupa ossessione ed aperture epiche; arduo ipotizzare un impatto del genere al tramonto degli anni ’60, ed il suono che House riesce ad estirpare dal suo strumento è il più rivoluzionario trapianto del violino elettrico in un ambito rock. “Sea Shanties” è veramente uno dei capitoli musicali più ustionanti della storia, ma High Tide sanno modellare anche atmosfere più rarefatte e meravigliosamente risolte sotto il profilo melodico: soprattutto nella conclusiva “Nowhere”, lasciano presagire ulteriori sbocchi evolutivi.
Infatti il secondo LP, intitolato semplicemente “High Tide”, realizza l’intricato, definitivo amalgama di psichedelia, rock metallico e progressive a tinte oscure, spingendosi fino ad oniriche divagazioni folk, che hanno reso immortale lo stile del quartetto. Registrato nell’aprile 1970 presso gli studi Morgan di Londra, con una coda in maggio agli Olympic, l’omonimo album restituisce l’incontaminata forza espressiva dell’esordio, ma in più suggerisce nuovi misteri, venature recondite, rivolgendosi alla mente dell’ascoltatore oltre che a scuoterlo fisicamente attraverso l’aggressione del suono.
La produzione stavolta è gestita dagli stessi High Tide, affiancati dal magistrale ingegnere del suono del debutto, George Chkiantz.
Di nuovo, l’inizio è folgorante; “Blankman Cries Again”, che include gli enigmatici, cupi versi “Born From The Carnage And Cast To The Darkness, Failed Are The Priests of Duality…” si dischiude sugli accenti subdoli della chitarra wah-wah di Hill, che inizialmente rinuncia alla proverbiale veemenza; poi i due solisti si fronteggiano sulle onde di un suono gigantesco, il lamento acuto del violino emerge, forte e selvaggio sul frastornante tappeto ritmico fino a gonfiarsi in una contorta e magica performance che riesce davvero a stregare: nulla è stato concepito di altrettanto esaltante per questo strumento nell’epopea del rock, ad eccezione del classico “Vivaldi” di Darryl Way (Curved Air). Poi però la chitarra di Tony riprende il sopravvento ed urla letteralmente, a suggello del primo dei soli tre brani-capolavoro (!) di “High Tide” Atto Secondo. Gli fa seguito “The Joke”, che manifesta i maggiori slanci progressive: in apertura liquide sonorità dagli spunti jazzati, poi sopraffatte dall’ennesimo, parossistico assolo di Hill. Nell’interludio centrale le tastiere di House ed il violino in chiusura, dipingono la trama melodicamente più avvincente mai ordita da High Tide, restituendo l’incanto sottile del vago misterioso attraverso un’eterea atmosfera.
Infine l’intraducibile “Saneonymous”, che occupa l’intera seconda facciata, destinata a concludere il ciclo di questo favoloso “continente perduto” del rock…Il bipolarismo virtuosistico chitarra & violino elettrico raggiunge in quest’intricata suite i suoi splendidi eccessi; i due titani duellano per l’ultima volta sulle turbolenze increspate dei ritmi, costringendo il suono a figurazioni tese e pazzesche, che si estinguono solo nelle maestose porzioni elettro-acustiche, che dapprima ne spezzano la fragorosa intensità e nel finale sembrano incredibilmente alludere ad una pace ritrovata.
“High Tide” uscì nel luglio 1970, adornato da una copertina goffrata dell’artista Joanna Enderby-Smith, di evidente matrice psichedelica. L’indifferenza del grosso pubblico, in Inghilterra distratto dalle molteplici proposte di una scena ribollente, preclude al quartetto quel successo che la sua debordante inventiva avrebbe largamente meritato e pochi mesi dopo, High Tide perdono il contratto discografico e si avviano allo scioglimento.
Le due magnifiche opere li consegnano, intatti e ciclopici, alla leggenda; tragicamente, come riconosciuto dallo stesso Tony Hill, non sussiste alcuna traccia filmata dei loro concerti live, a differenza di numerose formazioni cult alquanto inferiori!
Negli anni ’70, il “reduce” che conseguirà i maggiori riconoscimenti sarà Simon House, partecipando alla colonna sonora del “Macbeth” di Polanski con la Third Ear Band (1972), poi unendosi agli Hawkwind ed infine suonando con artisti di primo piano, David Bowie, Mike Oldfield, Japan, che gli garantiscono una certa agiatezza economica. Peter Pavli orbiterà a sua volta nella galassia Hawkwind, contribuendo a progetti collaterali di Michael Moorcock e Robert Calvert. Inoltre ritroverà Tony Hill nell’unico album della Ronnie Paisley Band, “Smoking Mirrors” (Pye, 1979). Il dirompente batterista Rog Hadden, affetto da esaurimento nervoso, scomparirà subito dalle scene.
Hill & House torneranno a lavorare insieme come High Tide, distribuendo un terzo album (edizione originale solo su cassetta) nel 1986, “Interesting Times”, a cui dedicai un articolo sul primo numero di Metal Shock; l’assenza di una sezione ritmica, sostituita da procedimenti elettronici, ammanta il suono di una seduzione arcana e psichedelica. Benché i vertici storici siano irraggiungibili, la collezione contempla reliquie del passato finora inedite e nuove composizioni.
Ma l’illusione di persistenza della grande avventura si conclude con il ritorno di Simon negli Hawkwind.
Per un breve periodo, specie a cavallo fra anni ’80 e ’90, proliferano raccolte di disparate rarità degli High Tide ed ancora una volta l’Italia è in prima fila nel rendere omaggio alla grande formazione scomparsa: la Cobra Records (futura Akarma) pubblica “Precious Cargo” e – per la prima volta in vinile – “Interesting Times”. Nel 2000 gli farà eco un’altra etichetta ligure, Black Widow, che immette sul mercato il doppio “Open Season” con copertina apribile che imita il design di “Sea Shanties”. Naturalmente numerose e significative le ristampe, in CD e vinile, dei due masterpieces originali.
Tony Hill, chitarrista prodigioso, inventore di incubi pirotecnici, è rimasto per sempre un personaggio underground, schivo ed umile a dispetto della grandezza dei suoi scenari musicali.
Quando noi di Rockerilla, nel lontano 1983, sguinzagliammo PG Brunelli a Londra alla caccia degli High Tide “Survivors” (Hill, & House, intervista sul n°39 di novembre), per lui fu un’impresa scovarli. Descrisse Tony come un reduce dell’epoca hippie dall’aspetto assai poco curato, specchio del suo ritratto di anni addietro. Il musicista fu esplicito nell’affermare la propria filosofia: “Il pubblico che ci seguiva era consapevole del nostro atteggiamento esistenzialistico e della nostra sincerità nel distacco dalla musica commerciale, fuori dalle grinfie di manager e case discografiche. Preferivamo questo tipo di appassionati veri ed entusiasti rispetto ad un pubblico più ricco e vasto, ma con un interesse mercenario. Avevamo le capacità per attirarlo, ma non era il nostro scopo.” Ed aggiungeva che sarebbe rientrato in un gruppo solo se particolarmente affiatato, unito da un legame speciale, come furono gli High Tide.
E’ così che Tony pubblicherà un paio d’album da solista, “Playing For Time” (WWR 1990) e soprattutto “Inexactness” del 2001 per la Woronzow di Bevis Frond, alfiere della psichedelia moderna, che poteva restituirgli l’adeguata dimensione da culto. Nello stesso anno usciva “DNA, The Brain & The Universe” con il suo ultimo team, Fiction.
Se ne è andato nel silenzio, dimenticato anche dalla presunta stampa specializzata. Con lui ci abbandona definitivamente il mito di High Tide, l’Atlantide del rock.
Con tutta la venerazione possibile, che gli sia resa gloria eterna nel mondo ultraterreno.
Avevo sedici anni, la folgore che mi colpì allora ancora oggi saetta, intatta. Da allora ad oggi High Tide, Tony Hill in primis (di cui, forse primo, nel 1972 cercai per ogni dove notizie a londra) , sono rimasti la pietra fondante di una passione poi dilagata inarrestabile in quel triennio impossibile. Sono tristissimo. Solo oggi leggo la notizia. Grazie per lo splendido ricordo e per non essere il solo a pensare da più di 50 anni che HT siano stati gli sconosciuti germogli di una imponente fetta di musica moderna, restando, gioco forza in quanto inventori, i migliori. Grazie
Sai Fabio, non è affatto facile scovare di questi tempi qualche conoscitore profondamente legato alla leggenda degli High Tide e di Tony Hill. Sapere che un esponente di questa specie rara è rimasto colpito da quanto scritto, mi riempie di soddisfazione. Ciao e grazie a te!
La copertina di sea shanties è quella che meglio rappresenta la musica, Cosi come la prima copertina dei Sabs, è il suono che ti aspetti. Ruvidi e onirici gli High tide sembrano usciti dalle pagine maledette di h.p.lovecraft. Pionieri incompresi di un rock completo, dai suoni sferzanti ed una voce non certo bella ma carica di incubi. Amo tutti i loro dischi anche quelli successivi, sempre coerenti con un piglio anarchico, fuori da schemi commerciali. Ecco gli High tide li vivo come una band libera. Gli Dei se ne vanno gli arrabbiati restano, parafrasando gli Area, Toni hill arpeggia nelle lande di Chtulu io arrabbiato mi abbandono al gorgo delle peggiori profondita che il rock abbia mai creato!
Grazie Beppe, articolo bellissimo anche se funestato da abbandoni importanti!
Ciao Giorgio, anche tu dai sfoggio di vena onirica e mi piace pensare che gli High Tide possano aver ispirato tanti appassionati che li ricordano come un gruppo speciale. Anche le raccolte di materiale inedito successive alla loro scomparsa sono ricche di spunti ragguardevoli, ma i due album ufficiali restano irraggiungibili. Ti ringrazio di esserti espresso in termini significativi.
Quando ti sento parlare degli High Tide, caro Beppe, è un tuffo al cuore. Ricordo come fosse ieri quando mi facesti scoprire Sea Shanties taaaaanti anni fa. In questo articolo, poi, scopro anche cose inedite, almeno rispetto ad allora. La maestria con cui le racconti è peraltro ancora oggi insuperabile. Band seminale. Grazie mille!
Sei sempre molto gentile Alessandro, ti ringrazio davvero. Certamente questo articolo, doverosamente, aggiunge qualcosa di nuovo e differente da parte mia, pur riallacciandosi a tematiche già affrontate. È necessario, perché col passare del tempo mutano anche alcune “inquadrature” dello stile musicale e degli artisti trattati. E penso che certe osservazioni siano assolutamente personali, per la passione “storica” (ben oltre 50 anni!) che nutro verso gli High Tide. Mi considero fortunato per averli ascoltati da neo-liceale, quando uscirono i loro dischi. Eravamo in molti appassionati di rock in quella classe e tutti o quasi avevamo sentito parlare degli High Tide! Un caro saluto.
Ciao Beppe,il destino inevitabile per tutti è quello purtroppo e sarà inesorabile nel sciorinare la sua lista, però parafrasando il titolo del post di Giancarlo recente,la musica non muore ma è il lascito in eredità ai posteri che spetterà loro non fare cadere nel dimenticatoio l’operato dei suoi esecutori.
Ed è grazie anche a persone come te che attraverso gli anni ed i tuoi scritti che questo non è accaduto,le tue retrospettive su artisti poco per non dire pochissimo noti ai più hanno fatto scoprire ad appassionati come me un sacco di musica ed artisti che altrimenti non avremmo avuto occasione di avvicinare.
Atomic rooster,Road,The Godz,Angel,Starz,Teaze,questi High tide e molti altri nomi sono stati trattati da te e divulgati spiegandone l’importanza e la qualità della loro musica e questo ti deve rendere merito perché hai contribuito che comunque la memoria di un’artista che ci lascia non venga dispersa.
Ciao Roberto, per me è un onore che ci siano appassionati che mi attribuiscono questi meriti di divulgazione. Ovviamente non sono io a giudicare il mio operato, semplicemente ho fatto del mio meglio per ringraziare certi artisti del piacere che mi hanno regalato con la loro musica; quindi ho cercato, per quanto possibile, di diffonderla e di trasmettere il mio entusiasmo in merito. Ti ringrazio tanto del pensiero.
grande commemorazione per “la più grande band underground di sempre”! (sottoscrivo in pieno Beppe!) peccato davvero il “silenzio assordante” che accompagna scomparse come quella di Tony Hill … e personalmente ignoravo anche la dipartita di Burley Jett … che tristezza, noi invecchiamo ed i nostri paladini vanno scomparendo! per fortuna rimane la musica e so cosa ascolterò questa domenica!
Ciao Giuseppe, fa davvero piacere che tu concordi sulla mia impegnativa affermazione; è noto comunque che in Italia gli High Tide abbiamo giustamente goduto di grande considerazione (per quanto limitata ad un pubblico specializzato). Nessuno è immune al trascorrere inesorabile del tempo, noi invecchiamo ed i musicisti che abbiamo amato, spesso sono più anziani di noi. Ma la musica resta, immortale. Grazie
Grazie Beppe per questo sentito omaggio ad un grande artista.
Per una volta, non mi cogli impreparato poiché da anni sono modestamente un accolito del culto High Tide, e conosco bene quei due dischi, che costituiscono un unicum anche nel variegato panorama musicale di fine 60 primi 70 in Gran Bretagna. Una proposta tanto illuminata e originale che in effetti non trova immediati paragoni in altre band coeve, e che purtroppo gli stessi autori non hanno potuto portare avanti adeguatamente.
Dispiace il silenzio della cosiddetta stampa specializzata (tranne eventualmente eccezioni di cui non sono a conoscenza), che giustamente stigmatizzi, ma in special modo in un paese musicalmente del terzo mondo come l’Italia, non ci si poteva aspettare altro.
Questo tuo articolo è perciò doppiamente apprezzato.
Sulla scomparsa di tutti questi personaggi del rock, purtroppo ci si dovrà sempre di più abituare, nella consapevolezza e nella consolazione che la musica resta.
Mi permetto di aggiungere un saluto anche a Kim Simmonds, deus ex machina dei Savoy Brown, per i quali gradirei tantissimo, in futuro, una tua retrospettiva.
Ciao Lorenzo, tengo a precisare che non commento mai la stampa nostrana attuale, mi riferivo proprio ad alcuni “maestri” inglesi che nel caso degli High Tide, sono stati carenti all’epoca ed oggi continuano ad ignorarli. Confermo che la critica musicale italiana ha fatto del proprio meglio per sostenere la causa degli High Tide a suo tempo. Anche per questo, non voglio cogliere impreparati i lettori come te che sono appassionati di musica e sanno riconoscere i giusti valori. Purtroppo mi è sfuggito di segnalare la dipartita di Kim Simmonds (13 dicembre), nel riassumere il periodo nefasto per introdurre l’articolo. Grazie della condivisione.