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Ricordo PerfettamenteTimeless : i classici

Roxy Music – Per il vostro piacere

Di 15 Dicembre 2020Dicembre 17th, 20206 Commenti

Roxy Music - Un piacere inatteso

Nel 1972 non c’erano molte possibilità di passare una buona serata per chi era affamato di musica e viveva in provincia. Niente concerti in giro e i rari a Milano o Roma, il che significava un budget per lo spostamento che andava sempre due o tre volte oltre il costo del biglietto; niente piccoli locali attivi in zona anche se in effetti il  mitico “Piper Club” stava dall’altra parte della strada, almeno per me, ma non sempre accessibile economicamente per un adolescente e non sempre proponeva quello che desideravi. Il budget era ridottissimo e rischiare un concerto “al buio” avrebbe significato un disco in meno in casa, non dimenticate che i primi vagiti del web sarebbero arrivati una ventina d’anni dopo… i pochi giornali fatti…diciamo artigianalmente…servivano proprio quando quel minimo di informazione era necessaria, anche se credibile come il Gigino odierno e affidabile come Paperoga. Nulla alla televisione mentre alla radio era necessario andare a selezionare con cura dentro a quelle due trasmissioni che erano l’unica boccata d’aria fresca.

Eccettuate queste, il resto era il deserto. Fuori dai nostri confini il mondo mutava con la velocità dell’alieno di “La cosa” e noi non potevamo neppure osservarlo. La radio ci dava poche possibilità di ascoltare quello che spesso era persino difficile riuscire a reperire per poi acquistarlo. In quegli anni, pare oggi strano ammetterlo, ma senza Renzo Arbore saremmo rimasti ancora ancorati a Gianni Morandi e alle sue cover passate per originali a vita.

Arbore aveva inventato, incredibilmente insieme a Maurizio Costanzo, una trasmissione dal nome ben poco attraente, vista con gli occhi di oggi, ma che concedeva – pur con una conduzione altalenante nei contenuti – alcune possibilità di guardare al di là del filo spinato. Per molti, non voglio dire per tutti, quella era una delle poche possibilità. Pare ridicolo anche solo immaginarlo nel terzo millennio, ma soltanto una quarantacinquina d’anni fa questo era tutto quello che avevamo per sfamare il nostro desiderio di musica; tutto quello che riuscivi ad organizzarti da solo faceva parte del tuo training da music scout, quello che ti costruivi e che ti avrebbe permesso un giorno di vivere meglio, circondato da splendide note. “Per voi giovani” un titolo che oggi neppure l’ultima delle radio libere avrebbe il coraggio di proporre, era condotta da una serie di soggetti più o meno appassionanti e/o credibili, tra cui il mio povero amico Massimo Villa, Paolo Giaccio e Riccardo Bertoncelli, il prototipo di giornalista musicale italiano, uno dei pochi appassionati competenti e credibili del tempo. Almeno dal mio punto di vista. “Per voi giovani” e “Supersonic, dischi a mach 2” – altro titolo che oggi farebbe fatica a non farti scoppiare dalle risate – erano due appuntamenti necessari. Stando lì, davanti a una radio, riuscivi, dotato di una pazienza certosina, a scremare quelle cose che ti avrebbero fatto crescere nel gusto e stimolato il tuo desiderio di capirne di più, di quel mondo cane che esplodeva ovunque tranne che sotto casa tua.

Non esistevano le barriere e le etichette costrittive in voga oggi; non c’erano tutta quella super-specializzazione e quel settarismo odierno dove tutto deve ricondurre a un unico stile ben preciso : là dentro si ascoltava un po’ di tutto, anche se con un occhio di particolare riguardo per l’Inghilterra. La musica degli Stati Uniti era forse un po’ troppo per la radio italiana. Per questo dovevi dotarti di pazienza: per attendere il momento della “tua” musica. La mia dotazione tecnologica per catturare il possibile e riascoltarmelo era fantasiosa ma funzionale: a una radio “satellitare” Grunding… nome ad effetto ma in realtà una scatoletta rubata a mio padre… era collegato con un cavetto artigianale un registratore Geloso a bobina, una sola bobina, che quando strappava il nastro mi costringeva a riappiccicarlo con lo scotch; l’impianto stereo era ancora da venire e registrare una serie di pezzi prima di assimilarli e farli diventare tuoi, obbligatorio. Black Sabbath, Hendrix, Deep Purple, Colosseum, Jethro Tull, David Bowie, Elton John, Cat Stevens, Vanilla Fudge, Uriah Heep e poi Mayall, Bond e cento altri entravano e uscivano dalla medesima bobina o perché scartati o perché destinati all’acquisto. Il Geloso e la bobina sono ancora nel mio studio, infilati in un cassetto che non avrò MAI il coraggio di svuotare. Fu negli anni della nascita dell’hard rock, del blues elettrico, dello sviluppo del progressive e dei dischi migliori che il rock anglosassone sia mai riuscito a partorire, negli anni immediatamente successivi alla ubriacatura psichedelica statunitense, che una sera registrai una cosa stranissima, nemmeno paragonabile a nient’altro avessi mai ascoltato in precedenza. Una sorta di giga, un ritornello ipnotico, cantata in modo…curioso da una voce come ubriaca, contornata da strumenti che credevo comuni ma utilizzati in modo assolutamente differente, divertente, ironica, scioccante a modo suo; inutile cercare di afferrarne i testi, internet per togliersi la curiosità sarebbe arrivato, ancora in fasce, solo quasi venticinque anni dopo e lo stile di conduzione non prevedeva eccessi di spiegazioni. Probabile che neppure loro conoscessero i testi… Ricordo che di quella canzone stranissima, afferravo chiaramente solo la frase finale : “What’s your name? Virginia Plain”…era l’esordio dei Roxy Music, un gruppo che non aveva nulla in comune con nessuna altra formazione pop e rock precedente, un gruppo che non doveva nulla a nessuno e che non ha mai avuto padri putativi o padrini. Qualsiasi cosa se ne dica.

Fammi un contratto e fammelo subito, firmato e imbustato, lo prenderò e lo porterò a Robert E. Lee, sperando che non lo rifiuti perché siamo stati così tanto tempo in circolazione sperando in un colpo di fortuna…”, questa era Virginia Plain: lo avrei saputo solo molto più tardi e se solo l’avessi immaginato in quell’inizio del 1972 me ne sarei innamorato ancor di più… ma era tutto il singolo a risultare anomalo, sconvolgente, innaturale, divertentissimo. Giusto un attimo dopo, in radio iniziò a passare “Re-make re-model” e poi “Ladytron” e fu lì che capii che ero di fronte a una banda di geni…una chitarra sferzante ma mai eccessiva, un sax jazzato che danzava su un tappeto di note assolutamente irrituali messe insieme da un muro di sintetizzatori che partivano per la tangente rispetto all’uso consueto cui eravamo abituati, costretti a riprodurre un insieme di rumori che fungevano da disturbo, da ritmica, da indicatori di sentieri inesplorati, da melodia…su tutto questo una voce, quella di Bryan Ferry, altalenante, perfettamente intonata e potente ma come fuoriuscita dalla gola di un tipo appena uscito dal pub dopo l’ultima campana e l’ultimo giro, mai lineare, piacente ma non piaciona… se vi è chiara la differenza. I Roxy Music erano deliranti, inconsueti, provocatori, sperimentatori, brutti e ambigui ma bellissimi, unici, incomparabili.

Chiariamo subito una cosa : esistono due fasi dei Roxy. Quella sperimentale, controcorrente, priva di punti di riferimento, creativa e mai banale e quella raffinatissima, di gran lusso, estremamente popolare, fin troppo orecchiabile. Pare incredibile ma entrambe sono frutto delle medesime menti, con il solo Brian Eno a separare nettamente le due ere. Chi tenti di giudicare i primi, immensi Roxy di Eno o quelli immediatamente successivi del bimbo prodigio Edwin Jobson, il suo sostituto, avendo in mente la produzione da “Siren” o da “Manifesto” in poi, commette un errore madornale. Tanto assolutamente inclassificabili e geniali i primi, quanto intelligenti ma in qualche modo abbordabili e codificabili i secondi. Ed è della prima fase, di quella soltanto, che vorremmo parlare.

Vogliamo parlare della nascita di quell’ingestibile insieme di pseudo-glam che è così lontano da qualsiasi classificazione da sfuggire anche al tentativo di far riferimento a un qualsiasi collega nella speranza di descriverli, di ingabbiarli. Qualche fesso provò ad accostare Bowie a Bryan Ferry, probabilmente attratto dall’esteriorità prorompente del cantante dei Roxy ma fu un tentativo fallimentare : Bowie cantava in modo lineare, a pieni polmoni, in modo melodico. Ferry sussurrava a tratti, sembrava perdere di tono, giocare con un cantato rock mescolato allo yodel tirolese, pareva un cantante di un night club berlinese infilatosi in un vuoto spazio-temporale e scivolato all’inizio dei settanta, nella Londra agitata e prolifera di quell’inizio di decade. L’operazione alle corde vocali avvenuta dopo l’uscita del secondo disco ne modificò in parte l’imprevedibilità, rendendolo più umano, più comune. O forse eravamo noi ad esserci abituati a quella follia vocale. Ascoltare “Roxy Music”, l’esordio, è un’esperienza. Cui è bene prepararsi. E’ un tuffo in ambienti alieni dove la follia di ritmi nuovissimi si alterna ad atmosfere decadenti, fumose, affascinanti, difficili da apprezzare a un primo ascolto, da centellinare cento volte prima di entrare negli schemi musicali offerti. UN disco molto difficile. Sarò un romantico, affezionato alle emozioni che mi legano ai momenti che mi ricordano i periodi in cui ho iniziato ad ascoltare certi artisti, ma credo di non sbagliare dicendo che quello è uno degli album d’esordio più vitali e fondamentali del rock anglosassone. E forse non è un caso che a produrre quella gemma sia Pete Sinfield, autore di testi e collaboratore di Robert Fripp e dei King Crimson. Per definirli, per tentare di farlo, la critica inglese coniò il termine “Art Rock”, volendo sottolineare così l’elevato grado di raffinatezza, di complessità della proposta di Ferry, Manzanera, MacKay, Thompson ed Eno.

Già, Eno… Brian Eno : l’uomo che ha ricevuto più awards per le sue avventure post-Roxy che voi guardato belle ragazze per strada, il rumorista massimo, l’acuto sperimentatore e inventore di sintetizzatori, il genialoide creatore di un suono unico, futuro artefice della trilogia berlinese di Bowie, futuro produttore e musicista per album luminosi di U2, Talking Heads, Devo, Paul Simon, Laurie Anderson, incensato e devotamente nominato come se fosse nato dal nulla, persino apprezzato come angosciante autore di musiche per film, aeroporti e altri ambienti…Brian Eno non era l’unico genio in quel gruppo. I Roxy erano un robusto equilibrio di esperienze e gusti diversissimi, un frullato di fortissime individualità miracolosamente caduto nel medesimo bicchiere, un concentrato di assoluta innovazione e di spirito di ricerca. In quegli anni Ferry, Manzanera e MacKay, persino il batterista Paul Thompson guardavano dritto negli occhi il delicato, pazzoide Eno.

E se una colpa possa essere mossa a “quei” Roxy Music è quello di aver dato purtroppo lo spunto alle centinaia di gruppi elettronici, new wave sperimentali che hanno ammorbato le nostre orecchie negli anni ottanta e novanta, gruppi di “vorrei essere” che non hanno mai neppure lontanamente sfiorato l’atmosfera e la forza innovativa di quelle canzoni…d’altra parte…chi mai avrebbe avuto il coraggio di fare della targa di un’auto (CPL593H) il ritornello di uno dei loro brani di punta, “Re-make, Re-model” ?

Al successivo “For your pleasure” vennero parzialmente tarpate le ali della creatività : nonostante l’impatto del singolo “Virginia plain”, il primo disco era assolutamente privo di veri brani radiofonici e d’altronde il singolo non era neppure stato incluso nella prima edizione del 33. La richiesta di ridurre le lunghezze di alcuni brani fece di questo disco un qualcosa di meno imprevedibile rispetto al primo, anche se la seconda facciata – buffo parlare di “seconde facciate” nell’epoca del cd … – ci riportava i Roxy come li conoscevamo : “Grey lagoons”, l’ipnotica “The bogus man” e la sinuosa, splendida “For your pleasure” sono un trittico di raro fascino. E poi dopo, “Stranded”, “Country Life”…dischi di elevata qualità artistica e compositiva, ma progressivamente indirizzati al cambiamento. Le copertine, però…eh, beh…i Roxy ricordo perfettamente che ci lasciarono per anni a vivisezionarne i dettagli per capire se si trattasse, come sostenevano alcuni, di reali donnine…o di surrogati. C’era sempre una piega ambigua del vestito nel punto sbagliato a lasciarti dubbi amletici. Problemi secondari, direi, dato che per il secondo disco, era una giovane e ancor sconosciuta Amanda Lear (…riecco i dubbi…) a tenere una pantera al guinzaglio. Brian Eno, però, abbandonava alla fine della seconda puntata: troppo stretta quella camicia. Fu così che l’intreccio tra Crimson, EG management e musicisti dei Roxy si infittirà, con Eno che andrà a sfornare un quadro astratto alla Terry Riley insieme a Fripp (“No pussyfooting”), un attimo dopo aver iniziato stranamente una carriera solista assolutamente in linea con le produzioni dei primi Roxy con l’esordio brillante di “Here come the warm jets”, un disco dei Roxy senza i Roxy. Un attimo dopo arriveranno per lui “Taking tiger mountain by strategy” e “Another green world” due collezioni di bellissime canzoncine solo apparentemente superficiali, ma dove la ricerca e la sperimentazione sono assolutamente in linea con i suoi primi Roxy Music. Peccato davvero.

Il sostituto, come già accennato, sarà il diciannovenne Edwin “Eddie” Jobson, polistrumentista, che finirà dopo poco nelle braccia di Zappa e il cui violino amplierà gli orizzonti del gruppo cui, da quel momento, verrà comunque tragicamente a mancare l’elemento sorpresa. Sia ben chiaro, però : i primi quattro album dei Roxy Music sono tutti assolutamente da avere, amare, imparare a memoria. Dal 1975 in poi il gruppo si piegherà gradualmente sempre di più ai desideri di Bryan Ferry, gran signore, personaggio delicato e colto, raffinato intrattenitore e autore di testi, intelligentissimo e sensibile crooner che condurrà i Roxy “fase due” a divenire, ahimè, il faro guida per tutti i nuovi romantici che stravolgeranno nel decennio successivo il pop patinato dei “nuovi” Roxy in una moda infame che tanti danni ha causato alle nostre orchiti e ai nostri organi basso-addominali più delicati.

Dal vivo, però, i Roxy Music sono sempre rimasti incredibilmente affascinanti. Grandissima presenza scenica, splendide canzoni, sempre in grado di sguinzagliare le immense potenzialità degli strumentisti, una serie di musicisti complementari di prim’ordine e…donnine…a infarcire il palcoscenico. “Viva!”, il primo assaggio di quanto sapevano fare su un palco mostrava in copertina una Jerry Hall in gran forma a duettare con l’affascinante Bryan….ma per avere lo sguardo definitivo di quello che erano e sono tutt’ora i Roxy Music, basta avere la pazienza di procurarsi il dvd del concerto di chiusura del tour 2001, quello relativo a una delle riunioni che saltuariamente, grazie a Dio, decidono…decidevano… di organizzare. Lì dentro, per poche lire, potete avere tutto: grandissimi pezzi, eccellenti esecuzioni, immensa presenza scenica, undici musicisti sul palco, quattro bellissime ballerine, una cascata di emozioni e uno dei più spettacolari, commovente, impressionante modo di abbandonare il palco che mi sia mai capitato di vedere. Un colpo di teatro in linea con la genialità del gruppo.

Immaginate di essere lì, all’Apollo Theatre di Londra: “For your pleasure” è l’ultimo pezzo del concerto. Le due rullate amiche di Thompson introducono il brano, sinuoso, cadenzato, lento. Le coriste si muovono in sincrono, tutto il gruppo è attento, l’atmosfera tesa. Musicisti e pubblico sanno che quella uscita chissà quando potranno viverla ancora.

Per il tuo piacere                                                                                                       For your pleasure

Nel nostro stato attuale                                                                                           In our present state

In parte falso parte vero                                                                                          Past false part true

Come niente                                                                                                               Like anything

Ci presentiamo                                                                                                          We present ourselves

Le parole che usiamo crollano                                                                               The words we use tumble

Tutte sulla tue spalle                                                                                                All over your shoulder

Come ghiaia dura e sciolta                                                                                     Gravel hard and loose

Lì tutta la notte distesa                                                                                           There all night lying

Con il tuo cavallo oscuro nascosto                                                                        With your dark horse hiding

Aborrendo tali estremi                                                                                            Abhorring such extremes

Ti stai massaggiando le spalle                                                                               You’re rubbing shoulders

Con le stelle di notte                                                                                                With the stars at night

Che splendono così luminose                                                                                Shining so bright

Invecchiando                                                                                                            Getting older

Il testo scorre lentamente su un tappeto sonoro ipnotico, avvolgente, grondante immagini dal doppio senso.  Ferry termina di cantare mentre il gruppo continua a suonare, si inchina, saluta. Poi tocca a Phil Manzanera, un breve solo, poche note, e la chitarra viene appoggiata…poi Andy MacKay, Chris Spedding e la bellissima Julia Thornton poi via, via tutti gli altri mentre il tappeto sonoro perde progressivamente, lentamente, uno strumento, pur restando nitidamente riconoscibile. Resta il solo Colin Good, a manipolare gli ultimi suoni del suo sintetizzatore sulla cui distorsione si chiude il palcoscenico.

Nove minuti e mezzo e il groppo in gola. E l’Apollo che viene giù, urlando “Roxy, Roxy”. Se non vi commuovete pure voi, passate agli Arctic Monkeys. Ma non venite e dirci che non ve lo avevamo detto. Chissà se mai li rivedremo ancora uscire così di scena.

6 Commenti

  • Paolo Rigoli ha detto:

    Bell’articolo, complimenti! Mi permetto solo di sottolineare che non tutti i gruppi/artisti che si sono ispirati ai Roxy Music negli anni a seguire sono da buttare. Cito come esempio i primi Ultravox e i Japan.

    • Giancarlo Trombetti ha detto:

      Ognuno “sente” la musica in modo diverso. Come è giusto… onestamente confrontare gli Ultravox di Foxx con i primi Roxy mi fa strano. E avendoli visti direi proprio di no. Quanto a Sylvian…beh sicuramente come immagine dei “secondi” Roxy… mentre come suono, li sento distanti. Meglio le cose che Sylvian ha fatto con Fripp, più sperimentali. Ma, ripeto, questione di orecchio, Paolo.

  • Giacobazzi ha detto:

    Me l’ aspettavo che non ci sarebbero stati commenti. Gruppo con tendenze arty ma al tempo stesso di gran successo commerciale… manca quell’alone di maledettismo e/o da loser che “non-hanno-avuto-il -successo-che-meritavano”.
    Ciao!

    • Giancarlo Trombetti ha detto:

      Beh… maledetti lo sono stati, secondo me al tempo in cui hanno vissuto la prima fase. Poi il fascino di Ferry…non dimentichiamo che per avere il grande successo servono le approvazioni delle femminucce… e il cambio di stile hanno fatto il resto. Per me, due dischi splendidi, due senz’altro molto buoni, i live da non perdere… e poi… assolutamente da avere le BBC sessions del periodo sperimentale 71/72.

  • Fabio Zavatarelli ha detto:

    Dico solo …. grandissima recensione-ricordo. Di quelle che ….. ti spingono ad andare a casa e riprendere e risentire tutto.
    Grazie GT

    • Giancarlo Trombetti ha detto:

      Direi che i nostri “flussi dal passato” servono principalmente a questo : a far ricordare e far venire la voglia di andare a recuperare. Se poi c’è pure qualcuno che scopre nuove cose e si fa venire lo stimolo ad approfondirle, ne siamo felici ed onorati. Grazie a te Fabio.

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